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La samaritanus bonus: tra cura e prendersi cura la riflessione etica sul fine vita”. Tesi di Fabrizio Gentiluomo.

«L’uomo in qualunque condizione fisica o psichica si trovi, mantiene la sua dignità originaria di essere creato a immagine di Dio» (Samaritanus bonus iii).

Così si esprime il nuovo documento della Congregazione per la Dottrina della Fede, Samaritanus bonus, esso porta con sé delle novità circa l’etica del prendersi cura.

La domanda sottesa al nostro lavoro è essenzialmente una: come ridare dignità alla persona che si trova in fase critica o terminale della vita, nella società di oggi?

Per poter dare una risposta concreta alla domanda che ci poniamo, dobbiamo anzitutto individuare gli ostacoli che sono presenti nel contesto socio-culturale che viviamo e  ne enucleiamo tre:

Un primo ostacolo come ci dice il documento, è un uso indebito, equivoco del concetto di morte degna, esso emerge dal fatto che oggi, viviamo in una società utilitaristica che concepisce la vita soltanto come un bene che debba tenere sempre e comunque un livello di qualità di alto, dimenticando altre dimensioni più profonde (relazionali, religiose) in forza di questo principio la vita viene considerata degna solo se ha un livello accettabile di qualità. Secondo questo approccio quando la vita pare povera di qualità che si esplica nella presenza-assenza di funzioni psichiche e fisiche (o con una delle due), la vita non meriterebbe di essere proseguita, però non si riconosce più che la vita umana ha un valore in se stessa.

Collegato al primo ostacolo ve n’è un secondo, e che oscura la percezione di vedere nella vita il carattere sacro e inviolabile che ogni vita possiede, è quello di un erronea comprensione della compassione, davanti ad una sofferenza qualificata come insopportabile, si aprono le porte a quella che prende il nome di eutanasia compassionevole, che porta come luogo comune (come slogan) la frase: “Per non soffrire è meglio morire”. In realtà la vera compassione deriva dalla sua stessa etimologia ovvero patire – con, cioè accompagnare il sofferente, sostenerlo e prestare attenzione ai suoi bisogni.

Un terzo ostacolo deriva dal fatto che la società di oggi è impregnata di individualismo esasperato e affermazione della propria autonomia, questo cercherebbe di annullare il senso della sofferenza e della malattia. Tutto ciò apre le porte a quella che Papa Francesco chiama Cultura dello scarto, dove conta solo ciò che produce, ciò che ha un effetto propulsivo, tutti coloro che non offrono più contributo, tutti coloro che non producono, che sono di peso non serve più alla società venga scartato e ciò vale anche per l’uomo, in quanto anche l’humanum è stato cosificato. Come ci dice mons. Paglia (presidente della PAV) il rischio più grave che noi abbiamo oggi è quello per un verso di aver allungato la vita per altro verso è quello di rischiamo di lasciarla sola, e questo crea un peso indescrivibile che apre le porte ad una cultura di morte come ricordava Giovanni Paolo II nella Evangelium vitae al punto da poter auto-convincersi di dover morire perché sono di peso, essa è l’insidia più velenosa che questa società dello scarto può portarci.

Tutto questo apre le porte ad una crescente richiesta di atti eutanasici, di suicidio medicalmente assistito, dovuti proprio al fatto che l’assistito si sente abbandonato o addirittura un peso per i propri familiari e per la società.

Per poter scardinare questa mentalità mortifera, è opportuno rimettere al centro la relazione di cura, anche se sembra che tale mentalità (quella del prendersi cura) faccia fatica ad imporsi a vari livelli ecclesiastico, legali, sanitari e familiari.

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