Estratto dalla tesi di Baccellierato di Niriana Lo Faro.

Il presente lavoro nasce dalla necessità di rispondere ad una delle domande postemi nel corso degli anni degli studi teologici che nasce dall'avvertire, così come è avvenuto per Marcione, una distanza incolmabile fra il Dio dell’Antico Testamento e il Gesù Cristo del Nuovo Testamento. Accostandomi alla Sacra scrittura con più attenzione e con più amore, ho conosciuto un Dio che si dà attraverso la parola profetica per comandare e condurre, educare e crescere, rimproverare e promettere punizioni, amare e farsi amare… insomma, per salvare il suo popolo. E nel fare ciò, si palesano sentimenti paterni, che sconvolgono, a primo acchito, al pensiero di doverli attribuire al Dio Onnipotente. Mi sono chiesta come potesse conciliarsi la definizione di Pio X, dell’Essere perfettissimo, Creatore e Signore del cielo e della terra, senza difetto e senza limiti, con il Dio Creatore e al contempo Padre e Sposo innamorato e tenero, e spesso infelice in quanto non corrisposto, dell’Antico Testamento. Il Dio «perfetto», cioè senza alcun difetto e concentrato di Potenza, Sapienza e Bontà, ha instillato e circoscritto un’idea di Dio che sembra entrare in conflitto con l’idea di Dio Padre Misericordioso, a cui ci rivolgiamo, certi che ci ascolti e ci ami nella nostra misera umanità, peraltro, misera sì, ma inspiegabilmente creata ed amata da Lui che è il Perfettissimo. Sembra esserci una distanza incolmabile, che da una parte ci fa pensare di non essere mai all’altezza di potergli chiedere perdono, lasciandoci vivere in una disperazione inguaribile, cinica e nichilista e dall’altra ci fa chiedere come mai questo Dio incomprensibile abbia voluto creare un uomo così difettoso. E questo Dio perfetto, totalmente Altro, nel Nuovo Testamento, s’incarna persino nel Cristo sofferente! Partendo da quanto appena detto, mi propongo nel presente lavoro di rileggere brani scelti di alcuni profeti nei quali emergono proprio quei sentimenti di Dio che ci fanno comprendere come Egli sia davvero il Perfettissimo nel senso filosofico della riflessione, ma è anche il totalmente Altro che entra in autentica relazione con il suo popolo. Ho analizzato le metafore sponsali, della vigna con il vignaiolo e del matrimonio, che descrivono il rapporto che Dio ha voluto con il suo popolo e che trova compimento nella storia della salvezza veterotestamentaria. Il metodo usato dal profeta, ispirato da Dio, è l’utilizzo del piano correlativo, grazie al quale la metafora sponsale è posta in essere. Esso mette in relazione due realtà diverse, in modo tale che una si comprenda alla luce dell’altra, creandone una terza in cui l’artista poetico non può fare a meno di «trasmettere quel patrimonio di parole, di esperienze, di immagini, per parlare di Dio e a Dio» e dentro la quale si sente compreso -prendere con sé- da Dio ed amato di un amore divino. Il profeta restituisce quest’amore a Dio e al popolo ma non può farlo pienamente ed esaustivamente. Egli può soltanto lasciare intendere o alludere ad una realtà altra, la cui bellezza appare ma non si svela mai del tutto. La ragione di questo sta nell’incapacità dell’uomo di poter vedere palesemente la magnificenza di Dio, la sua gloria.

Il tema della vigna è la metafora poetica e sponsale di Israele utilizzata in una visione positiva, innanzitutto da Os 9,10: «Come uva nel deserto ho trovato Israele», e Os 10,1: «Israele era una vigna lussureggiante che produceva molto frutto». Osea vede Israele come una vite rigogliosa che dà frutto abbondante ma che poi a causa di questa ricchezza moltiplica gli altari e il suo cuore diviene falso. Anche il profeta Amos vede nel progetto di restaurazione della salvezza divina che «i monti stilleranno il vino nuovo e le colline si scioglieranno. Muterò le sorti del mio popolo Israele, ricostruiranno le città devastate e vi abiteranno, pianteranno vigne e ne berranno il vino, coltiveranno giardini e ne mangeranno il frutto» (Am 9,13-14). La metafora della vigna sembra essere una delle metafore sponsali perfette che ritrova la sua massima espressione poetica nel Cantico dei Cantici (1,6; 7,9; 8,11-12), e introduce nel rapporto d’amore fra Dio e l’amato popolo. Anche il salmo 80 muove dalla metafora della vigna «per descrivere la storia del popolo nelle sue fasi salienti: liberazione dall’Egitto, possesso della terra ed esilio11»; si legge infatti, nel Sal 80, 9,13: «Hai sradicato una vite dall’Egitto, hai scacciato le genti e l’hai trapiantata. Le hai preparato il terreno, hai affondato le sue radici ed essa ha riempito la terra. […] perché hai aperto brecce nella sua cinta e ne fa vendemmia ogni passante?». In Isaia, invece, così come in Geremia e in Ezechiele, la metafora della vigna esplicita anche l’amarezza del Signore di fronte a cotanta indifferenza del popolo ed al suo tradimento. In Ezechiele 15, il legno della vite è utile solo per essere bruciato, ma il legno intatto non serve a niente: «Perciò così dice il Signore Dio: Come io metto nel fuoco a bruciare il legno della vite a posto del legno della foresta, così io tratterò gli abitanti di Gerusalemme» (Ez 15,6). Ed ancora Ez 19,10-14: «Tua madre era come una vite piantata vicino alle acque. Era rigogliosa e frondosa per l'abbondanza dell'acqua; ebbe rami robusti buoni per scettri regali; il suo fusto si elevò in mezzo agli arbusti, mirabile per la sua altezza e per l'abbondanza dei suoi rami. Ma essa fu sradicata con furore e gettata a terra; il vento d'oriente seccò i suoi frutti e li fece cadere; il suo ramo robusto inaridì e il fuoco lo divorò. Ora è trapiantata nel deserto, in una terra secca e riarsa; un fuoco uscì da un suo ramo, divorò tralci e frutti ed essa non ha più alcun ramo robusto, uno scettro per regnare. Questo è un lamento e come lamento è passato nell'uso». Altri sono i passi dove i profeti utilizzano la metafora della vigna e della vite per indicare un futuro funesto o di salvezza al popolo d’Israele, ma mi preme citare il verso emblematico di Geremia 2,21: «Ti avevo piantato come una vigna scelta, tutta di vitigni genuini; ora, come mai ti sei mutata in tralci degeneri di vigna bastarda?». In Geremia, in poche battute si legge l’amore (vigna scelta), la delusione (come mai ti sei mutata in tralci degeneri), e la rabbia per il tradimento (vigna bastarda) di Dio, che si palesano negli altri testi succitati e come vedremo di seguito anche in Is 5,1-7.

La scelta del profeta nel preferire l’immagine della vigna come realtà sponsale piuttosto che altro, sembra azzeccata perché «lascia intuire che tutte le operazioni della vita agricola sono manifestazione di una genuina saggezza che ha la sua origine in Dio stesso. Non sono operazioni casuali, senza ordine, condotte senza intelligenza. Al contrario, ci vuole una profonda conoscenza degli elementi e delle stagioni per sapere coltivare il suolo, seminare i cereali e poi raccogliere il frutto del proprio lavoro». L’insegnamento di Dio si traduce in una sapienza del fare, in una sapienza pratica che non solo può essere rivolta a tutto il popolo, ma s’impara con immediatezza. Il popolo sa bene cosa significhi preparare il terreno per l'implementazione delle viti: o lo scasso e la vangatura che consiste nel rompere le zolle di terra per poi sollevarle in modo tale che il terreno risulti più soffice, areato e drenante. Poi si passa all’impianto delle barbatelle o giovani viti, le quali si scelgono a seconda del clima e della qualità di uva che si vuole produrre. Per piantate le barbatelle, è necessario costruire una spalliera di sostegno alle viti che cresceranno, fatta da pali di legno di castagno, dritti e robusti, posizionati ad una distanza precisa l’uno dall’altro. Quando le barbatelle attecchiscono, bisogna compiere un passaggio fondamentale per la salute della singola pianta che è di grande valore pratico ma direi anche morale: la sbarbatura. Questa consiste nel recidere, dopo un anno dalla piantagione, le radici più superficiali che non penetrando in fondo al terreno, si espongono al sole e al suo calore facendo disperdere energia alla pianta. Si facilita così la crescita della piccola barba radicale e della radice centrale che affondano nel terreno e irrobustiscono se stesse e la vite. Dunque, al contrario di come potrebbe sembrare, un numero maggiore di radici, non dà alla pianta maggiore possibilità di vigore, ma la appesantisce, la sciupa e nel tempo la espone a malattie ed a morte. Ciò che è superficiale va tagliato! Bisogna prestare la massima attenzione a ciò che è necessario per una vita\vite rigogliosa e fruttifera. Per noi siciliani, della zona orientale, è molto familiare lo scenario vinicolo; riempiamo i nostri occhi della bellezza dei vigneti, simmetrici e perfettamente allineati e, poi, guardando singolarmente le piantine di vite, ci soffermiamo sulle loro strane forme contorte che si avvolgono al loro diritto palo di castagno. È il loro modo di opporsi alla legge ferrea del traliccio. Accettano di crescere verso l’alto ma presentano tutte le storture possibili. In queste storture, nodi, curve e tornanti, mostrano tutto il loro fascino. Ma si ripiegherebbero su se stesse e marcirebbero se non fossero costrette dal loro tutore a crescere verso l’alto. Ma in Is 5, questo lungo lavoro di coltivazione si è dimostrato inutile, a tal punto da meritare queste parole da Dio: «Ora voglio farvi conoscere ciò che sto per fare alla mia vigna: toglierò la sua siepe e si trasformerà in pascolo; demolirò il suo muro di cinta e verrà calpestata. La renderò un deserto, non sarà potata né vangata e vi cresceranno rovi e pruni; alle nubi comanderò di non mandarvi la pioggia» (Is 5, 5-6).
Il passo di Is 5 potrebbe essere un canto di lavoro che accompagna la faticosa operosità dei vignaioli e la loro amarezza provata dinanzi allo scarso raccolto, nonostante i faticosi lavori fatti, ma, allo stesso tempo, nasconde il canto d’amore di un uomo per la sua donna ingrata che gli fa soffrire ripetute pene d’amore. Mello dà tre letture possibili della tipologia di questo passo: è un canto d’amore che il diletto offre all’amata, ma anche una parabola sapienziale che, legandosi all’esperienza quotidiana e comune della viticoltura, descrive minuziosamente tutte le attenzioni che il vignaiolo riserva alla propria vigna.
Ed infine troviamo lo svelamento del significato della metafora, che rivela l’identità del vignaiolo, il quale emette un giudizio di condanna nei confronti della vigna. L’intreccio di queste tre componenti giova a creare una strategia giudiziaria efficace in quanto occulta inizialmente l’accusa, per fare in modo che l’ascoltatore non si senta accusato e che anzi ascolti incantato il canto d’amore e ben si disponga a riconoscere gli errori commessi. Ma la vigna «produsse, invece, acini acerbi»! La radice ebraica bāʼāsh significa in generale «puzzare» e quindi suggerisce l’idea di acini marci ed è lo stesso termine riferito alla manna, che in Es 16, 20-24, conservata per l’indomani, «imputridiva». Mello preferisce seguire il parere dato da un grande commentatore che, oltre a sapere l’ebraico, era un viticultore. «Rashi usa il termine tecnico di “lambrusca”, un vitigno selvatico che produce acini amari. Sarebbe lo stesso termine utilizzato da Ger 2,21 in cui la vite è “straniera” o “bastarda”» 33. Questa interpretazione ben si collegherebbe con il proposito del capitolo di Is 5.
La rabbia di Yavhè in Is 5,3-6: dunque «tra tanta festa ci si dimentica del festeggiato» che tutto ha donato: la vigna e tutti quei gesti benevoli e salvifici perché producesse uva buona. Ecco che, allora, il canto festoso diventa un gesto tradizionale, popolare ma non religioso, in quanto rende un grazie superstizioso ad un dio altro e non al Dio d’amore d’Israele. Quindi il profeta annuncia catastrofi, non perché queste debbano avvenire ma, per destare l’attenzione del popolo, metterlo in guardia dal fatto che senza buone relazioni fra gli uomini non ci può essere una buona relazione con Dio e viceversa. I vv. 5-6 mostrano cosa Dio, arrabbiato, sta per fare alla sua vigna: toglierà la siepe di confine perché da fuori possa essere considerata terra di pascolo, aperta alle pecore e alle capre che mangeranno i germogli delle viti e non potranno più fare frutto. Ma ancora, non solo toglierà la siepe, demolirà anche il muro di cinta che aveva costruito al suo intorno, a maggiore protezione di chiunque avesse cattive intenzioni; non la proteggerà più. La esporrà alla mercé di tutti, così come il popolo ha mostrato di volere, ratificando tale richiesta con la sua condotta. La renderà un deserto, perché non la vangherà più, non la dissoderà e non la poterà. Sembra quasi che Dio voglia riavvolgere il nastro del tempo perché è stato tutto lavoro inutile. Ritornerà terreno incolto, dove rinasceranno pruni selvatici e rovi che lo renderanno fitto e spinoso, praticamente inaccessibile. Non arriverà nemmeno pioggia, perché Dio non lo guarderà più. Il Signore ricorda, nel canto, la bellezza (da kόσμος che significa ordine nel senso della bellezza dell’ordine) con cui aveva creato la sua vigna e il suo amato popolo l’ha distrutta, perché ha preferito il disordine. Tanto amore nel volerla perfetta, quanta rabbia nel distruggerla!
La delusione di Yavhè in Is 5,7: Sia Marconcini che Ravasi scelgono di tradurre le ultime quattro battute del v. 7, in modo tale da conservare la sonorità originale del verso, nel modo seguente: «Egli si aspettava diritto ed ecco delitto, attendeva giustizia ed ecco nequizia». Dunque, il Signore si attendeva sᵉdāqāh (giustizia) ed ecco invece che udì solo seˊaqah (grido degli oppressi), si aspettava miŝpāt (rettitudine) ed ebbe miśpāh (spargimento di sangue). Anche qui, l’utilizzo dell’allitterazione, serve a rimarcare il senso di quanto detto e aiuta a memorizzarlo e a fissarlo nella mente. Nel momento in cui il popolo volta le spalle a Dio, la confusione generata storpia le parole e i concetti e ciò che sembra bello e ordinato, che sembra possa provenire da Dio, non lo è. In nome della sᵉdāqāh di Dio si commettono ingiustizie, presumendo di poter fare a meno di lui, l’amore per l’altro diventa oppressione e prevaricazione. Il miŝpāt divina, consegnata all’uomo, è facile quando Dio è il metro con cui si misurano le cose. Tolto questo strumento, l’uomo non ha i mezzi per poterla attuare e diventa esso stesso misura delle cose e del giudizio sul mondo, ed ecco il miśpāh. Secondo Isaia, «si può stabilire se una comunità è a posto di fronte a Dio dal modo in cui essa tratta il diritto divino. Il modo in cui si pratica il diritto è la prova eminente della considerazione in cui si tiene Dio».
« LA SPOSA RIBELLE (GER 3,12; EZ 16,8).

Estratto dalla tesi di Baccellierato di Alessia Castania.

SULLA PROCESSIONE DELLO SPIRITO SANTO

Storia e teologia del Filioque tra Oriente e Occidente

Lo studio che affronta il seguente lavoro di ricerca verte sulla questione teologica e dottrinale del Filioque che da secoli separa la Chiesa cattolica da quella orientale. È necessario, prima di ogni cosa, sottolineare che la questione teologica sopracitata non è l’unico motivo di separazione fra le due Chiese infatti, anche la questione del primato petrino è un altro dei motivi per il quale le due Chiese, ancora oggi, non vivono la piena comunione. Lo studio sull’affascinante questione del Filioque è mosso dalla curiosità di conoscere sempre più e sempre meglio l’avvincente dibattito teologico sulla processione dello Spirito Santo senonché scoprire le vie possibili per un ritorno alla piena comunione. È una storia ferita quella che vede protagonisti l’Oriente e l’Occidente cristiano, una storia di dispute e dibattiti teologici che si sviluppa sempre più quando la fede semplice e genuina della prima comunità cristiana diventa un dogma e una professione di fede: la fede nel Dio uno e trino. È proprio a seguito delle prime eresie cristologiche che la Chiesa ha la necessità di definire il dogma sulla Trinità. È infatti al Concilio di Nicea nel 325 e di seguito al Concilio di Costantinopoli nel 381 che viene definita la formulazione del Credo cristiano. La fede cristiana è una fede nella Trinità consostanziale: un’unica divinità adorata in tre Persone. Il Padre, il Figlio e lo Spirito appaiono dunque strettamente uniti come un unico Dio.

È infatti il mistero trinitario che costituisce per la fede cristiana il centro della sua verità salvifica. Il mistero della fede trinitaria è infatti il mistero di Dio stesso che si rivela nel Padre, nel Figlio e nello Spirito Santo 1 .

In ultima analisi, se il Concilio di Nicea affronta il grande articolo sulla divinità del Figlio, il Costantinopolitano I sviluppa invece la dottrina sulla divinità dello Spirito Santo. Più specificatamente, se a Nicea il punto di partenza era la monarchia del Padre per poi arrivare alla mediazione del Figlio, e all’articolazione economica di Dio nello Spirito, il presupposto di Costantinopoli è invece l’affermazione dell’unica essenza divina trascendente e inconoscibile, che esiste dall’eternità: il Padre genera il Figlio a Lui consustanziale e fa procedere lo Spirito conglorificato.

Il Concilio di Nicea e quello di Costantinopoli I tentarono di risolvere la questione cristologica avanzata dalle eresie e fu proprio da questo momento che si susseguirono una serie di concili i quali ebbero lo scopo di affinare sempre più e sempre meglio il linguaggio teologico sulla Trinità.

La questione comunque non si risolse felicemente poiché le due diverse prospettive teologiche risultavano essere sempre più distanti poiché non chiarivano perfettamente secondo quali termini è possibile esprimersi sul rapporto tra il Figlio e lo Spirito. Infatti, la questione pneumatologica sviluppò prospettive di pensiero assai diverse le quali via via allontaneranno sempre più la tradizione orientale da quella occidentale dando vita a una storia travagliata che trovò il suo culmine in una serie di dispute e dibattiti teologici.

Una prima sostanziale differenza può essere riscontrata nel porre l’accento, da parte dell’Oriente cristiano, sulla monarchia del Padre, sull’essere unico principio e fonte della Trinità, di contro l’interesse della teologia latina fu quello di esplicitare l’azione attiva del Figlio nella processione dello Spirito Santo cercando di penetrare ad intra nel mistero trinitario e spiegando come l’unica essenza divina si dispieghi nelle tre Persone. Sintetizzando: la teologia orientale è quella dell’unico Dio in tre Persone la teologia occidentale è invece quella delle tre Persone nell’unico Dio 2 . Si riscontra dunque che l’impostazione teologica greca è più attenta a salvaguardare il primato ontologico del Padre, l’impostazione latina invece attenziona maggiormente le relazioni fra le Persone divine. Infatti: «in Occidente dal dato “economico” dello Spirito dono del Padre e del Figlio si è passati al dato immanente della processione dei due; si è messa in risalto la corrispondenza tra l’“economia” e la “teologia” che la fonda. La teologia orientale non ha fatto questo passo, almeno non con uguale chiarezza. Ha invece tenuto più in conto il fatto che lo Spirito venga su Gesù, il Figlio incarnato» 3 . Due diverse impostazioni che porteranno ad una lenta e dolorosa separazione tra le due Chiese la quale culminerà in modo definitivo nello scisma del 1054. Fu proprio in questo modo che lo Spirito Santo, vincolo di amore e di comunione in Dio e tra Dio e gli uomini divenne la causa della separazione tra i discepoli di Cristo.

Ciò che portò alla rottura definitiva tra le due Chiese fu l’interpolazione unilaterale del Filioque al Simbolo da parte della teologia latina. Tale aggiunta non voleva essere una modifica del Simbolo quanto una specificazione del ruolo del Figlio in rapporto alla processione dello Spirito Santo. Così, la fede tra le due Chiese è comune ma, la teologia differisce di parecchio. La rottura tra le due Chiese cercherà di trovare un punto di incontro per un ritorno alla piena comunione nella celebrazione di due concili di unione: il Concilio di Lione (1274) e il Concilio svolto a Ferrara e poi a Firenze (1438-1439). Entrambi i concili ebbero infatti lo scopo di tentare l’unione fra le due Chiese, di codificare la dottrina del Filioque e di dare un’interpretazione autentica del suddetto. Tuttavia ambedue i concili non ebbero molto successo a causa della mancata ricezione da parte dell’Oriente cristiano, essi infatti non riuscirono a risolvere la questione dottrinale poiché posero l’accento più sulla prospettiva latina che su quella greca.

Mentre la teologia trinitaria andava sviluppandosi sempre di più, quella del Filioque fu certamente una delle discussioni più ardue e complesse che la Chiesa si trovò ad affrontare. A partire dai Padri della Chiesa, fino alla celebrazione dei due concili di unione, la questione riguardante la processione dello Spirito Santo costituì il tema principale del dibattito teologico tra l’Occidente e l’Oriente cristiano con un epilogo che sembra essere rappresentato da un documento di chiarificazione del 1995 a cura del Pontificio consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani.

Quello del Filioque è certamente un problema che ancora oggi si ripercuote nella vita e nella comunione ecclesiale infatti, anche se con un temperamento più mite, la questione rimane al centro del dialogo ecumenico. Alla Chiesa d’Oriente e a quella d’Occidente non resta dunque che il compito di ricomporre la mancata comunione risultato di secoli di dispute dottrinali ed ecclesiali. Molti sono i teologi e gli studiosi che si sono impegnati nella risoluzione di tale dibattito teologico proponendo avvincenti soluzioni teologiche alla risoluzione del problema e se per alcuni la posizione orientale e quella occidentale possono essere armonizzate fra di loro, per altri queste ultime non sono armonizzabili poiché lo Spirito procede solo dal Padre dunque il Filioque rimane inaccettabile. Tra i tanti teologi che hanno affrontato la questione, si è dedicata maggiore attenzione a S. Bulgakov e Y. Congar. Entrambi i teologi sopra citati hanno contribuito a formulare, rispettivamente per l’Oriente e per l’Occidente cristiano, delle possibili soluzioni per un ritorno alla comunione. Paradossalmente Y. Congar, teologo latino, propone di sopprimere il Filioque dal Simbolo affinché si possano superare tutte le irregolarità canoniche causate dall’interpolazione del Filioque che ancora oggi è causa della mancata comunione tra le due Chiese 4 . Contrariamente S. Bulgakov sostiene l’idea per la quale è possibile accettare il Filioque poiché esso rivela una grande verità: l’eterna relazione tra il Figlio e lo Spirito. In questo modo il teologo ortodosso cerca di superare il lungo e acceso dibattito tra le due Chiese dando alla pneumatologia un’impostazione teologica del tutto nuova 6
.

In tal modo è divenuto possibile giungere ad una formulazione di fede ecumenica nell’espressione che recita: «credo nello Spirito Santo che è Signore e dà la vita e procede dal Padre del Figlio» 8 .

A questo bisogna aggiungere che per un dialogo più proficuo, è necessario privilegiare ciò che come unica Chiesa di Cristo accomuna e non ciò che invece separa e che impedisce l’incontro tra le due professioni di fede. Pertanto, la ricerca del Dio-Trinità non deve essere volta ad una mera speculazione filosofica e teologica quanto ad approfondire la conoscenza del Dio uni-trino che rivela il più grande mistero della comunione che concilia le differenze. È in questo senso che il lungo dibattito sulla processione dello Spirito Santo è diventato motivo di ricerca anche interiore, di domande finalizzate alla conoscenza sempre più profonda di un Dio Padre che per amore si rivela nel Figlio attraverso lo Spirito.

E sul dialogo ecumenico fra la Chiesa d’Oriente e quella d’Occidente è possibile concludere con le parole del Concilio Vaticano II nella sua costituzione Lumen Gentium: «lo Spirito suscita in tutti i discepoli di Cristo il desiderio e l’azione, affinché tutti, nel modo da Cristo stabilito, pacificamente si uniscano in un solo gregge sotto un solo Pastore. E per ottenere questo la madre chiesa non cessa di pregare, sperare e operare, ed esorta i figli a purificarsi e rinnovarsi, perché l’immagine di Cristo risplenda più chiaramente sul volto della chiesa» 9 .

1 Cfr. Catechismo della Chiesa Cattolica, 234, Citt  del Vaticano 19992, 81.

2 Si tratta di una semplificazione che ha fatto scuola a partire dagli studi di T. de R gnon: cfr. A. COZZI, Manuale di teologia trinitaria, Brescia 2009, 583 (Nuovo corso di teologia sistematica 4).

3 L. F. LADARIA, Il Dio vivo e vero, Il mistero della Trinit , Cinisello Balsamo 2012, 431 (L’abside. Saggi di teologia 65).

4 Cfr. Y. CONGAR, Credo nello Spirito Santo, Brescia 19982 (Biblioteca di teologia contemporanea 98; tit. orig. Je crois en l’Esprit Saint, Paris 19952).

1 Cfr. S. BULGAKOV, Il Paraclito, trad. it. di F. Marchese, Bologna 1971 (Epifania della Parola 12; tit. orig. Utešitel’).

6 P. EVDOKIMOV, Lo Spirito Santo nella tradizione ortodossa, Roma 1971 (Punti scottanti di teologia 65; tit orig. L’Esprit Saint dans la tradition orthodoxe, Paris).

7 A. COZZI, Manuale, cit., 601.

8 Cfr. G. J. WOODALL, Risvolti morali del Filioque, in M. GAGLIARDI (ed.), Il Filioque. A mille anni dal suo inserimento nel Credo a Roma (1014-2014). Atti del Convegno di Studi dell’Ateneo Pontificio  Regina Apostolorum  (Roma 27-28 novembre 2014), Citt  del Vaticano 2015, 352.

9 CONCILIO ECUMENICO VATICANO II, Cost. dogm. sulla Chiesa Lumen Gentium (21 novembre 1964), 15, in EV, 1/325.

Estratto dalla tesi di Baccellierato di Gabriele Conti.

«La gioia al di là delle mura del mondo»

Le realtà ultime nel Legendarium di J. R. R. Tolkien

«Il Signore degli Anelli è un’opera fondamentalmente religiosa e cattolica» (Tolkien, Lettera n. 142). Con queste parole John Ronald Reuel Tolkien definisce la più famosa delle sue opere, che nel mondo ha conosciuto un successo tale da essere tradotta in sedici lingue e da vendere più di venti milioni di copie, divenendo il “libro del secolo”. Il Signore degli Anelli fa parte, insieme a Lo Hobbit e al Silmarillion, del vasto Legendarium tolkieniano. «La parola “Legendarium” – scrive Claudio Testi – era anticamente usata per indicare collezioni di leggende e vite di santi; Tolkien riprende tale termine e lo applica alla sua monumentale raccolta di scritti sulla Terra di Mezzo, la quale si compone, (considerando anche The History of Middle-Earth), di oltre 8.100 pagine per oltre due milioni di parole».

Tolkien era un «valente filologo e un fervente cattolico» (A. Monda). Nutriva una sincera stima e un profondo amore per la cultura tedesca e la mitologia nordica; amore sorto dalla lettura di numerose mitologie nordiche come il Kalevala finnico, il Beowulf anglosassone, l’epica islandese e i romanzi cavallereschi del ciclo arturiano. Era un grande studioso di lingua inglese e anglosassone medievale, ma anche di lingue medievali del Nord Europa come il norreno, il finnico, il gotico, l’inglese Antico e Medio. Il suo “vizio segreto”, come lui stesso lo definì, era inventare nuovi alfabeti e nuove lingue, con tanto di «cornice di storie di popoli, etnie, genealogie che dessero vita e animassero questi nuovi linguaggi che la sua scatenata fantasia sfornava» (A. Monda).

Tolkien era anche «particolarmente devoto a Maria, considerava sua madre una martire della fede, consigliava di comunicarsi tutti i giorni, credeva all’Angelo Custode, considerava i liberi costumi sessuali di allora un segno del dilagare della concupiscenza, vedeva nel matrimonio anche una mortificazione degli istinti sessuali, era contrario alle leggi sul divorzio e andava in pellegrinaggio in luoghi di culto come Lourdes» (A. C. Testi). Formato presso l’Oratorio di Birmingham, fondato da John Henry Newmann, Tolkien era un uomo di grande fede; fede trasmessa con amore paterno ai suoi figli e traboccante nelle pagine delle sue opere.

Scrive Johann Baptist Metz che il logos della teologia viene posto «nell’impaccio in cui viene a trovarsi la ragione quando s’interroga, ad esempio, sull’inizio e sulla fine, sulla determinazione del nuovo, del non ancora accaduto […]. Si può parlare di “inizio” e “fine” soltanto narrandoli o presupponendo una narrazione»; e Tolkien ha saputo mostrare, per mezzo del suo Legendarium, come il logos della teologia “nasconda” una natura narrativa. Tolkien è, infatti, «colui che raccontò la Grazia» (M. Toninelli); l’autore del Legendarium non ha stilato alcun trattato di dogmatica o di filosofia, né si è intrattenuto in lunghe e articolate prediche sui temi centrali della religione. Ha invece raccontato l’evento dell’Evangelium per mezzo della fiaba e della narrazione fantastica; scrive Tolkien stesso che «il vangelo non ha abrogato le leggende; le ha santificate», in quanto la Grazia è giunta a noi per mezzo di un racconto, il Kerygma annunciato dagli apostoli a tutte le genti, e giunto a noi attraverso generazioni e generazioni di credenti. L’opera di Tolkien è una delle tante opere di letteratura che, soprattutto nel secolo scorso, hanno dato un notevole contributo non solo alla riflessione teologica, in particolare all’escatologia, ma anche alla vita di fede di ogni credente in Cristo.

«Le “cose ultime” – scrive Franco Manni – sono la Morte (termine della vita), il Giudizio (sul significato della vita), l’Inferno (il non averne avuto) e il Paradiso (l’averne avuto), e riguardano sempre e solo il futuro». I cosiddetti classici Novissimi, tuttavia, non esauriscono l’intera realtà delle “cose ultime”; nell’escatologia cristiana, infatti, rientrano anche il mistero della Risurrezione, il Purgatorio, l’apocalittica, la Parusia. In una battuta: l’escatologia cristiana tratta del Cristo veniente a portare il definitivo compimento alla storia della salvezza e alla creazione intera. Vi è dunque sempre il pericolo di una eccessiva “cosificazione” dell’Escatologia, così come di considerare le “cose ultime” solo come una realtà collocata in un lontano futuro, che rischia di non riguardare più il tempo presente. Spesso, infatti, ricorda Francesco Brancato, si considera la risurrezione come «il semplice riscatto della negatività della morte, il giudizio il riequilibrio degli effetti della colpa, il paradiso ciò che svuota l’inferno, ecc»; riflettere sui Novissimi, invece «vuol dire fissare lo sguardo sull’aldilà non per dimenticare le brutture del presente, le sue contraddizioni, il peccato e il male, ma per vivere il presente, il penultimo, alla luce dell’ultimo e del definitivo; significa cogliere la realtà nel suo significato più profondo, in ciò che dovrebbe essere, in ciò che sarà in futuro per opera di Dio, e anche per l’impegno dell’uomo. Pensare seriamente i novissimi significa riscattare le realtà escatologiche dal clima di sospetto in cui per troppo tempo sono state mantenute».

Alla luce di questo appare chiaro che non è solo l’uomo a trovarsi in difficoltà di fronte al suo futuro, al senso della morte, a concepire una “realtà” di beatitudine e una “realtà” di condanna e tormento; anche la teologia sperimenta la stessa difficoltà e lo stesso imbarazzo nel poter “dire le cose ultime”, tanto che i Novissimi sono stati faticosamente rimessi in luce dalla riflessione teologica solo negli ultimi decenni. Il merito di questa “riscoperta” è dovuto anche e soprattutto al contributo che la teologia ha ricevuto da altre discipline; cogliendo «i segni dei tempi» (Mt 16, 4), la riflessione teologica si è lasciata aiutare dall’apporto di discipline come la scienza, la filosofia, l’arte, la musica, la letteratura, nel poter “balbettare” qualche parola sulle realtà ultime riguardanti l’uomo e la storia del mondo. E l’opera di Tolkien è una delle tante opere, nello specifico di letteratura, che hanno dato un notevole contributo alla riflessione teologica, in particolare all’escatologia.

Tra i tanti temi riscontrabili nelle storie della Terra di Mezzo come «perdono, amore, misericordia, pietà, ardore cavalleresco, riconoscimento dei propri limiti, apertura nei confronti del diverso, discernimento interiore, libero arbitrio, forza di volontà, abbandono fiducioso a un disegno più grande, accoglienza della propria missione, rispetto dell’altro, ricerca della vera immortalità, lotta contro le forze del male dentro e fuori di sé, gioia di vivere, umiltà, sorriso, amicizia» (I. Sassanelli), il tema centrale è senza dubbio, come scrive Tolkien stesso, «la Morte e l’Immortalità» (Tolkien, Lettera n. 186).

Tolkien scrive che la morte è avvertita dall’uomo quale «Nemico» della propria esistenza: «Ma certamente la Morte non è un Nemico! […] La confusione è opera del Nemico, ed una delle ragioni principali del disastro degli uomini» (Tolkien, Lettera n. 208). L’uomo, infatti, quando si trova di fronte alla paura di una morte «irreparabile…irrimediabile…irreversibile…irrevocabile» (Z. Bauman), prova quello che Tolkien definisce «il desiderio più antico e profondo, quello della Grande Evasione, l’evasione dalla Morte» (Tolkien, Sulle Fiabe). Eppure, sfuggire alla morte o eliminarla dalla propria esistenza non coincide con un’ipotetica beatitudine sperata. Per Tolkien, infatti, l’uomo è costantemente esposto «all’orribile pericolo di confondere la vera “immortalità” con la longevità seriale illimitata. Essere liberi dal Tempo e restare attaccati al Tempo» (Tolkien, Lettera n. 208). Eliminare la morte non significa per l’uomo continuare a vivere ma essere “costretto” a vivere, divenendo un muto spettatore dello scorrere inesorabile del tempo che tutto consuma. Il Legendarium, dunque, non tratta della ricerca del potere, come si potrebbe erroneamente pensare; esso «è solo la forza che mette in moto gli eventi, ed è relativamente poco importante […]. Riguarda principalmente la Morte, e l’Immortalità; e le “scappatoie”: la longevità seriale e la memoria tesaurizzante» (Tolkien, Lettera n. 211). Queste “scappatoie” dalla Morte sono ricercate in particolare da due popoli della Terra di Mezzo: gli Elfi, e gli Uomini, che altro non sono che «aspetti differenti dell’Umano, e rappresentano il problema della Morte come visto da una persona finita ma volenterosa e autocosciente» (Tolkien, Lettera n. 181). Gli Elfi sono immortali, “intrappolati” entro i confini di Arda e invidiosi per il destino mortale degli altri popoli; gli Uomini sono, invece, mortali, profondamente angosciati dalla paura della morte e invidiosi della vita senza fine degli Elfi. Il tema centrale dell’opera, dunque, riguarda «qualcosa di molto più eterno e difficile» della semplice ricerca del potere; essa tratta di «Morte e Immortalità: il mistero dell’amore per il mondo nei cuori di una razza “destinata” a lasciarlo e apparentemente a perderlo; l’angoscia nei cuori di una razza “destinata” a non lasciarlo finché tutta la sua storia suscitata dal male non si sia completata» (Tolkien, Lettera n. 186). Quella che Tolkien compie è «una vera e propria meditatio mortis per l’uomo contemporaneo» (A. C. Testi), esposta attraverso i popoli degli Elfi e degli Uomini, il loro rapporto con la morte e le relative conseguenze: l’invidia e le “scappatoie”.

Gli immortali Elfi, infatti, invidiano il destino mortale degli Uomini, e considerano la loro Morte come il Dono di Dio. L’illimitata lunga vita degli Elfi li porta a vivere di “scappatoie” quali i ricordi e la memoria; vivono di pigra malinconia; cercano di fermare il tempo e di “imbalsamare” la natura, poiché non riescono a tollerare l’inesorabile scorrere del tempo che consuma tutta una creazione intaccata dal male. Gli Uomini, di contro, non considerano la Morte come un Dono, ma come un castigo di Dio. Essi dunque invidiano l’immortale lunga vita degli Elfi a tal punto da muovere “guerra” contro le “Potenze della Terra di Mezzo”: i Valar. Nel famoso racconto della Caduta di Númenor, Tolkien racconta della ribellione «orribilmente folle e blasfema» (Tolkien, Lettera n. 131) degli Uomini Númenóreani che, angosciati dal pensiero del loro destino mortale, fanno vela verso il regno Beato di Aman, dimora delle “Potenze angeliche”, con l’intento di impadronirsi di quella terra e della sospirata immortalità. Ma il loro intento si conclude con l’intervento divino di Eru Ilúvatar (Dio) che apre un profondo abisso nel mare in cui precipitano tutte le flotte degli Uomini, compresa l’isola di Númenor. Al tema della Morte si intreccia, dunque, anche il tema del Giudizio: il Giudizio degli Uomini contro Dio e di Dio sugli Uomini; tema ampliato anche dai racconti incompiuti sulla Dagor Dagorath, la Grande Battaglia finale che vede il male sconfitto e il mondo risanato.

Gli Uomini, per sfuggire alla temuta Morte, cercano anche altre “scappatoie”, tra cui quella dell’Anello del Potere di Sauron, attorno al quale ruotano gli eventi de Il Signore degli Anelli. Il Potere più eloquente che l’Anello conferisce al suo portatore è quello di una innaturale lunga vita, come testimoniano Bilbo e Gollum. Ma l’effetto di tale “diabolico talismano” è tutt’altro che benefico, come dimostra il personaggio di Smeagol. Un tempo un Hobbit, Smeagol diviene a causa dell’Anello il mostro Gollum, la cui esistenza diviene un Inferno vissuto come incomunicabilità, estraneazione, lontananza e solitudine rispetto al mondo e a chiunque. La sua mente è devastata, la sua vita è schizofrenica, dilaniata tra Smeagol l’Uomo e Gollum il Mostro, profondamente disumanizzato e tormentato.

Le “scappatoie” alla Morte e all’Immortalità conducono Elfi e Uomini a vivere rispettivamente dei falsi “Paradisi imbalsamati” e delle “esistenze profondamente infernali”. Il Vero Paradiso e la Vera Immortalità, per Tolkien, coincidono paradossalmente con la morte stessa (Cfr. Tolkien, Lettera n. 156), il “lieto transito” da questo mondo verso la pienezza dell’esistenza e verso l’incontro beatifico con Dio, come dimostrano le straordinarie storie d’amore di Beren e Lúthien, Aragorn e Arwen, rispettivamente un Uomo mortale e un Elfa immortale. Per amore del proprio amato, Lúthien e Arwen rinunciano alla loro natura immortale e accolgono una esistenza mortale, vivendo il dramma di avere fede in un futuro senza garanzie (Cfr. Tolkien, Lettera n. 131); per amore della propria amata, Beren e Aragorn accolgono la morte come parte naturale della vita e come pienezza della propria esistenza, confidando di potersi incontrare nuovamente dopo la morte perché «al di là delle mura del mondo vi è più dei ricordi» (Cfr. Tolkien, Il Signore degli Anelli).

Morte, Giudizio, Paradiso e Inferno, non sono in Tolkien solo “cose ultime”, narrate abbondantemente anche dai paesaggi geografici e dai personaggi della Terra di Mezzo, ma sono un tutt’uno armonico vissuto in chiave antropologica e relazionale dall’Uomo, sempre aperto al proprio destino e al proprio futuro. Dopotutto «l’opera è stata scritta da un uomo» (Tolkien, Lettera n. 203).

L’espressione rituale delle emozioni dice l’interazione e la coesione della comunità, che deve in un certo senso riorganizzare l’assenza, ridefinendo il tessuto delle relazioni interpersonali tra coloro che sono rimasti in vita. Ora, questo modello antropologico ha certamente una tenuta che, nel nostro presente, va al di là di qualunque visione si possa avere della morte: che la si legga in una prospettiva sorretta dalla fede, o la si consideri l'ultima parola del racconto di ogni vita, la morte chiede lo spazio per essere ospitata, per essere profondamente accolta. Ospite inquietante per la dimora di chi resta da questa parte, ha bisogno che i vivi possano contemplarla nei tratti di chi se ne è andato, possano, una volta tornati alla vita di prima che non sarà mai più come prima, fare memoria dei momenti del congedo, ripercorrerne gli istanti, la fatica, la dolcezza, l’ineffabile silenzio.

Tutto questo è mancato — e soprattutto mancherà — a moltissime persone per le quali la separazione fisica definitiva dai propri cari è stata siglata — nei casi più fortunati — dalla sbrigativa consegna di un sacchetto di effetti personali appartenuti al defunto. Si fa strada nella

mente il fondato timore che questo addio negato possa produrre frutti di dolore nei giorni che verranno. Di quel dolore sordo che sfocia appunto — per tornare al punto da cui siamo partiti — nella accidia: senso di negazione della vita che deriva, come abbiamo visto, dalla privazione del lutto, dalla sua sospensione ad infinitum.

E allora ci permettiamo di sperare che sarà possibile, quando l'incubo della pandemia sarà alle nostre spalle, immaginare e soprattutto realizzare una nuova gestualità della cura rivolta alle persone che hanno sperimentato questa impossibilità del congedo: se i loro cari sono stati numeri per le statistiche, non smettono certo di essere uomini e donne con cui il dialogo silenzioso potrà essere ancora fecondo. Restituire alla compassione lo spazio che le è stato sottratto, accogliere a ritroso le parole, pronunciate o taciute, sulla soglia del transito all'altra riva, può essere un canto di autentica resistenza alla sparizione e, insieme, una custodia della presenza di chi ci appare inghiottito dall'Assenza. Dedicare a quei morti, in maniera collettiva ma non generica, in ogni chiesa, o in altri spazi pubblici, una celebrazione che sia il loro funerale, aperto a tutti coloro che vorranno donare loro l'impareggiabile tributo della memoria, nel rispetto della distanza anche tra credenti e non credenti, potrebbe essere il primo segno di quella Comunione che — se è mancata almeno sacramentalmente nel primo tempo della pandemia — non smette di interpellarci come esigenza di relazione profonda tra noi viventi e il Vivente, tra ciascuno di noi e la vita, anche nel suo volto più doloroso. Perché le lacrime, pure sgorgando, possano essere finalmente pacificate, e non diventino gelo, non diventino pietra.

Donatella Puliga, Il congedo negato, in Synaxis XXXVIII/2 2020, Studio Teologico S. Paolo

Il covid va considerato un'occasione propizia per tirar fuori, ex malo bonum, per prestare attenzione a ciò che prima si trascurava, per trasformare la "dis-grazia" in "grazia", dato che «l'avversità restituisce agli uomini tutte le virtù che la prosperità toglie loro» (Eugéne Delacroix): da molti si è presa coscienza che «il profilo dell'umano si sta trasformando [...] nel disincanto dell'onnipotenza e prendendo dolorosa confidenza con i limiti della creaturalità» 11 con la provvidenziale riscoperta del «valore di quanto è civile, comune, superiore all'individuale e alle declinazioni del possesso. Provare a ricostruire la comunità, e ripensare l’essenziale riscrittura dell’esistere secondo la trama del noi, riconciliando le generazioni, i generi, le narrazioni, le idee, le verità, gli interessi» 12 .

Alla luce del Vaticano II si tratta di lasciarci interrogare dai segni dei tempi e di cogliere, pertanto, nella pandemia un "segno" da interpretare: la lettura cristiana dei giorni che viviamo consentirà di rendere l'emergenza un'opportunità di crescita, di cambiamento, di comunione. Papa Francesco precisa: «non è il tempo del tuo giudizio, ma del nostro giudizio: il tempo di scegliere che cosa conta e che cosa passa, di separare ciò che è necessario da ciò che non lo è. È il tempo di reimpostare la rotta della vita verso di Te, Signore, e verso gli altri» 13 e guardando alla gravità della situazione, anzi proprio in virtù di questa consapevolezza, ammonisce che «il vero dramma di questa crisi sarebbe sprecarla»: da cristiani dobbiamo cercare di rendere l'avversità un'opportunità; una situazione così straordinaria deve aiutarci a vivere in maniera più consapevole l'ordinarietà della vita; a distinguere tra quello che ci disumanizza e quello che ci rende umani, fratelli.

S. Consoli, Pandemia e fraternità universale, in Synaxis XXXIX/1 - 2021, pp. 47-80.

11 G. Bonfrate, Accompagnare (non subire) le sfide dei presente, in L'Osservatore Romano, 23-24 marzo 2020.

12 Ibidem.

13 Momento straordinario di preghiera in tempo di epidemia (27 mano 2020),in L'Osservatole Romano, 29 marzo 2020.

Estratto della tesi di Baccellierato di Rosario Pittera.

«Chi è Dio? Dio è l’Essere perfettissimo, Creatore e Signore del cielo e della terra. Perfettissimo significa che in Dio è ogni perfezione senza difetto e senza limiti, ossia che Egli è potenza, sapienza e bontà infinita»1. Così il catechismo di S. Pio X definisce “l’essere di Dio”.

Eppure c’è da chiedersi se tale concezione di Dio tenga conto dei passi scritturistici in cui egli muta, cambia idea, si pente. In altre parole ci si chiede se il Dio perfettissimo presentato dal catechismo maggiore corrisponda al medesimo presentato dalla Scrittura come un Dio che “patisce con…”, che “soffre con…” e che è disposto a ritrattare le sue posizioni in vista di un legame più intimo con la creazione. La formulazione dottrinale circa la perfezione di Dio, a ragione, non può assolutamente ammettere l’idea di cambiamento o, peggio ancora, del pentimento in Dio: egli non può mutare poiché rimane sempre il medesimo. Se si ammettesse che in Dio sussista cambiamento, saremmo autorizzati a pensare che Dio non sia perfetto bensì deficitario di qualcosa, necessitante di altro per giungere alla perfezione.

La storia e il suo continuo fluire trasmettono questo senso d’imperfezione. Ogni uomo, nello scorrere del tempo sperimenta la sua caducità e, contemporaneamente, percepisce l’intimo anelito verso una condizione migliore sotto ogni aspetto della sua esistenza (spirituale, etico, fisico ed economico). È dunque chiaro che l’attribuzione a Dio di tale imperfezione potrebbe risultare irriverente nei confronti della sua perfezione nonché della sua divinità.

Pertanto le domande che vengono poste a fondamento sono: è possibile pensare Dio come un essere “cangiante” al pari degli uomini? Ed eventualmente, com’è possibile pensare il suo cambiamento? In che modo Dio si pente? Non è forse da ritenersi un’idea poco ortodossa?

In effetti, la perdita della “perfezione” divina, biblicamente intesa, è in contrasto con l’idea filosofica di Dio che soggiace implicitamente alla definizione del catechismo maggiore in cui la divinità è pensata ora come causa efficiente del mondo ora come monoliticamente immobile nella sua sovrabbondanza di essere. Tali attributi di matrice filosofica sono stati accolti dalla teologia, sotto l’influsso della riflessione tomista, giungendo all’idea che quanto affermato da Aristotele circa il divino fosse sovrapponibile con la medesima idea di Dio consegnata dalla tradizione cristiana. Così facendo il motore immobile di aristotelica matrice è finito per coincidere ipso facto con il Dio della Scrittura.

La perfezione filosofica, che sembra sottendere alla formulazione dottrinale del catechismo di maggiore, include inevitabilmente il concetto di onnipotenza, unitamente a quelli di onniscienza, libertà assoluta e potere assoluto su tutto e tutti. Eppure, simili rappresentazioni metafisiche del divino non trovano riscontro diretto all’interno della Bibbia. I testi, invece, in modo inequivocabile, ci presentano un Dio che cambia e non un Dio immobile e sempre uguale2.

Alla luce di ciò si rende necessario lo studio di quei brani scritturistici che rivelano in maniera evidente Dio nell’atto di mutare un suo personale proposito, pentendosi del castigo minacciato al popolo infedele. Assieme a questo si necessità anche premettere alla nostra riflessione il concetto di antropomorfismo e antropopatismo. Con questi termini si fa riferimento a quell’espediente letterario che consiste nel parlare in termini umani di qualità (fisiche e psichiche) possedute da Dio.  Il giudizio estremamente negativo di coloro che non accettano un simile linguaggio, quasi da considerarsi irriverente nei confronti di Dio, non tiene conto che l’utilizzo dell’antropomorfismo non solo non costituisce un problema oggettivo per poter parlare di Dio ma è paradossalmente necessario:

«La difesa più semplice dell’antropomorfismo nel linguaggio su Dio è che esso è indispensabile, e che i suoi limiti non sono maggiori di quelli che lasciano indifferenti in ogni uso profano della metafora. Ma vi è altresì un forte argomento positivo per la sua conservazione: la fede in Dio dipende in piccola parte da un ragionamento razionale, e in più larga misura dalla capacità di ideare immagini che sappiano cogliere, ricordare e trasmettere le esperienze della trascendenza»3.

In altre parole: non è possibile parlare di Dio trascurando tutte le sue rappresentazioni antropomorfe, avendo la pretesa di rivolgersi direttamente alla conoscenza dell’essenza divina.

Una simile interpretazione di Dio non è da considerarsi arbitraria ma prende avvio dall’analisi del verbo nm, il cui significato è “pentimento, cambio di sentimento o atteggiamento rispetto a quello precedente”. Nel percorso che verrà intrapreso si guarderà alla ricorrenza del termine in Gen 6, Es 32 e 1Sam 15.

In Gen 6,6 gli uomini sono intrinsecamente peccatori sin dalla nascita e tale peccato progredisce a tal punto da porsi in atteggiamento ostile contro l’originario progetto di Dio; Egli dunque si pente dell’uomo da lui creato: «Il Signore è addolorato della depravazione degli uomini e sembra pentito di aver dato avvia alla creazione, a tal punto da voler cancellare e azzerare tutto; soltanto la comparsa della figura di Noè pone un argine all’intenzione divina, un argine parziale perché con il diluvio gran parte della popolazione sulla terra comunque perirà»4. A conclusione del racconto del diluvio, il narratore Yahvista, immerge nuovamente il lettore all’interno dei pensieri del cuore di Dio.

Uscito dall’arca con la famiglia ed il bestiame dopo che le acque del diluvio si erano abbassate, Noè costruisce un altare per il sacrificio di animali puri. Il profumo di questo sacrificio sale sin al trono di Dio il quale, con fare umano, odora l’aroma delizioso che giunge fino a Lui. Immediatamente cambia idea: «Non maledirò più il suolo a causa dell’uomo, perché l’istinto del cuore umano è incline al male fin dalla adolescenza; né colpirò più ogni essere vivente come ho fatto» (Gen 8, 21). Il sacrificio compiuto da Noè placa l’ira di Dio ed il termine “nm” non andrebbe più tradotto con il significato di “pentimento” quanto invece con il concetto di “consolazione”: Dio è consolato dal sacrificio compiuto dal giusto Noè.

Anche in Esodo 32,14 Dio è presentato come pentito. Qui però si compie un passo in avanti: di grande rilievo risulta la preghiera d’intercessione di Mosè, capace di far ravvedere Dio dal proposito di distruggere il popolo a causa del suo peccato di idolatria. Va specificato che Dio si pente «non perché il popolo sia innocente, meriterebbe infatti immediatamente la condanna per il peccato di idolatria, ma si pente solo per la sua infinita misericordia. Acquista dunque profondo significato la preghiera d’intercessione, quale unico mezzo per placare l’ira divina»5.

Il pentimento di Dio è rintracciabile ancora all’interno del primo libro di Samuele (cfr. 1Sam 15,11). Questo si inserisce tra le pagine più tristi della storia del re Saul: qui pare che il pentimento di Dio nei confronti del peccato di Saul sia irrevocabile, senza via d’uscita e nessun lieto fine. Dio si è pentito d’averlo costituito Re sopra il suo popolo.

Anche i profeti non temono di presentarci Dio nell’atto di retrocedere su una sua scelta. Essi, avendo come compito precipuo quello di denunciare la trasgressione della legge e il tradimento dell’alleanza, assumono nel loro linguaggio aspro quanto attiene al mondo della procedura giuridica, in modo particolare in quella procedura che prende il nome di rîb (lite). Ciò che i profeti sono chiamati a manifestare è il contenzioso che spesso emerge tra Yhwh e il suo popolo. Due aspetti risultano particolarmente interessanti all’interno del rîb: per la valida attuazione di questo tipo di procedura sono necessari vincoli di appartenenza reciproca, di natura affettiva. Ma, se da un lato suppone vincoli di natura affettiva, «dall’altro -il rîb- si propone di difenderli, di ripristinarli, e persino di perfezionarli proprio nel momento drammatico in cui uno dei due partner ritiene che l’unione amorosa sia stata infranta da un comportamento gravemente offensivo»6.

In conclusione, dallo studio attento della Scrittura pare impossibilità affermare che Dio sia impassibile, privo di ogni sentimento. Le sue viscere si commuovono, Dio piange, prova compassione, è pietoso, è geloso, si pente. Dio è certamente immutabile, ma non è possibile affermare che sia impassibile! E l’uomo, fatto ad immagine e somiglianza di Dio, sembra abbia ereditato da lui tutte le caratteristiche, tra cui evidentemente anche le emozioni e gli stati d’animo, con la differenza che il peccato dell’uomo, macchiando l’originale bellezza della creazione, ha corrotto i sentimenti umani così che non è più possibile affermare l’assoluta somiglianza tra i sentimenti umani ai sentimenti di Dio. Il Dio d’Israele e il Dio dei cristiani è dunque un “Dio patetico”.

A partire da queste considerazioni è possibile affermare anche che Dio si pente! E che Dio si penta diventa paradossalmente necessario per la personale comprensione di Dio e la vita di fede dei credenti. A titolo esemplificativo: se Dio si pente la preghiera dei figli che s’innalza a Dio assumerebbe un’importanza non indifferente tanto da essere capace di portare Dio a cambiare idea su una decisione precedentemente stabilita. Se Dio si pente dunque non solo ascolta le nostre preghiere ma si rende disponibile a ritrattare una sua precedente decisione per amore dei suoi figli.

Non sembra esserci contraddizione tra il pentimento di Dio e l’onniscienza di Dio. Questo perché, per quanto ci è possibile comprendere, Dio non “conosce” appieno il suo avvenire, rinviando alcune sue decisioni finali, nell’attesa di vedere come certe azioni libere dell’uomo possano “influenzarlo” nell’agire. In altri termini:

«La spiegazione dell’immutabilità di Dio e, quindi, della perfezione divina, cioè della sua onniscienza e onnipotenza, risulta essere poco convincente, anche perché trascura un dato teologico legato alla libertà con cui Dio sceglie di relazionarsi; egli si pone accanto all’uomo, ne accetta la storicità, la mutevolezza, l’imprevedibilità, e il linguaggio di ravvedimento sottolinea che Dio non è un robot che replica sempre sé stesso, né un “essere” chiuso nella sua perfetta immobilità. Prendendo sul serio la libertà umana, Dio accetta di “compromettersi” fino in fondo con la sua creatura, non stabilendo tutto già dal principio ma seguendo in tutti i suoi sentieri esistenziali, anche quelli più accidentati, anche quelli che sembrano condurre in vicoli ciechi»7.

Le Scritture d’Israele, dunque, non rivelano un’idea preconfezionata di Dio e non lo rendono un mero oggetto di dissertazioni filosofiche. La Bibbia ci mostra un Dio che si pente, che cambia, che entra in relazione sincera con gli uomini e non un Dio immobile e sempre uguale8.

Questo breve percorso ci permette di ricostruire un’immagine di Dio forse meno filosoficamente impostata, ma aderente a quanto Dio stesso dice di sé, di scorgere il volto di un Dio-persona che, ponendosi accanto agli uomini, è capace di provare «giusta compassione per quelli che sono nell’ignoranza e nell’errore, essendo anche lui rivestito di debolezza» (Eb 5,2)9. Soltanto il cuore di un lettore che si accosta alla Scrittura con libertà e apertura di spirito riuscirà a scorgere, dietro ai pochi episodi menzionati, il volto autentico di un Dio disposto a negoziare la sua onnipotenza in vista del trionfo della sua alleanza: un cammino capace di condurre il cuore dell’uomo fin dentro le abissali profondità dei sentimenti divini.

Consapevoli che la riflessione sul pentimento di Dio necessita di ulteriori approfondimenti e mossi interiormente a rendere lode al Dio immutabile ed eterno, uniamo gli animi attraverso quella preghiera che il filosofo Søren Kierkegaard pone all’inizio della sua opera L’immutabilità di Dio:

«Tu immutabile, niente ti muta! Immutabile nell’amore, perché è proprio per il nostro meglio che tu non ti lasci mutare: fa che anche noi possiamo volere il nostro vero bene; con la tua immutabilità fa che veniamo educati a trovare quiete in obbedienza incondizionata e ad acquietarci nella tua immutabilità! Non sei come un uomo che, per mantenere un po’ di immutabilità, non deve avere troppo che lo possa muovere, né lasciarsi muovere troppo. Tutto invece ti muove, e in infinito amore; ti muove persino ciò che noi uomini diciamo insignificante e non smossi trascuriamo; il languire di un passero, un gemito umano, ciò di cui spesso non teniamo alcun conto, ecco che muove te, infinito amore: ma nulla ti muta, tu immutabile! Oh, tu che in infinito amore ti lasci muovere, ti muova anche questa nostra preghiera, benedicila; ed ecco che la preghiera muterà l’orante ponendolo in accorso con il tuo immutabile volere, tu immutabile!»

1 Pio x, Catechismo maggiore, Milano1988, 17.

2 cfr. S. Pinto, In nome di Dio. Dai fondamenti al fondamentalismo, Padova 2018, 42.

3 G. B. Caird, Lingua e linguaggio figurato nella Bibbia, Brescia 2009 (Studi Biblici 161, tit. orig. The Language and Imagery of the Bible, London 1980), 221.

4 S. Pinto, In nome di Dio, cit., 41.

5 l.c.

6 P. Bovati, Vie della giustizia secondo la Bibbia, cit., 76.

7 S. Pinto, In nome di Dio. cit., 46-47.

8 ibid., 42

9 Tutte le citazioni bibliche presenti in questo elaborato sono citate secondo la versione della Conferenza Episcopale Italiana del 2008.

Le Chiese che sono in Italia intraprendono un Cammino Sinodale; questa è la novità che segna il 2021 e si diffonde tra interrogativi, un velo di scetticismo e la timida speranze di porre mano a una fatica fruttuosa. Determinanti sono stati i ritmici interventi di Papa Francesco, risalenti al 2015 a Firenze, come anche il dibattito che da essi ha preso avvio. Non può tralasciarsi, certo, la congiuntura creatasi tra la fine del decennio, incentrato sull'educazione, con la necessità di scegliere i nuovi orientamenti pastorali (decennali o quinquennali), e l'avvento da marzo 2020 della pandemia da Sars-Covid-19. Gli impulsi del Papa furono colti come messa in discussione dell'impianto che aveva nel "documento programmatico e convegno di verifica" la sua espressione principale, perseguito per cinque decenni e bloccatosi proprio a partire dal quinto Convegno ecclesiale nazionale del 2015.

Si viene adesso lentamente a comprendere tra i vescovi che a far problema non è questo modo di procedere, riconosciuto negli ultimi mesi come esercizio non solo di collegialità episcopale, ma di vera e propria sinodalità; bensì si mette a tema senza tentennamenti quel che è maturato nei decenni precedenti: la distanza tra la società e la struttura istituzionale ecclesiale, comprendente il clero e i cosiddetti operatori pastorali, l'indebolirsi della capacità di ascolto dello Spirito da parte di quest'ultima, la mancata realizzazione della tanto auspicata conversione pastorale delle comunità. Anzi gli scandali venuti alla luce dagli inizi del nuovo millennio come la ormai acclarata distanza dei giovani e soprattutto delle donne, dalla "Generazione y" in poi, dalla vita delle comunità denunciano una crisi dell'istituzione che mina parte della sua credibilità e dichiara la diminuita capacità di essere significativa e dialogante con la società odierna. Ecco la crisi della missione, cioè dell'annuncio del Regno, solo in parte spiegabile alla luce delle indagini socio-culturali che la connettono con la crisi delle istituzioni, con la cultura dell'individualismo e con il crollo della fiducia reciproca tra le persone e le loro organizzazioni nel vivere sociale quotidiano.

*Estratto dalla prolusione accademica di Mons. Antonino Raspanti, Vescovo di Acireale e Vicepresidente della Conferenza Episcopale Italiana su “Primi passi del Cammino Sinodale delle Chiese in Italia”, per l’inaugurazione dell’Anno Accademico 2021-2022

Inauguriamo il nuovo anno accademico a poche settimane dall’apertura da parte di Papa Francesco del sinodo dei vescovi sulla sinodalità, dal titolo "Per una Chiesa sinodale: comunione, partecipazione e missione”. Una Chiesa in cammino nel cammino di una Chiesa che ha bisogno di incontrarsi, di essere ascoltata e aiutata a discernere.

II S. Paolo, come ogni istituzione accademica, deve essere un luogo di formazione intellettuale con la finalità di formare le coscienze di quella Verità che è stata depositata nel cuore della Chiesa e che dobbiamo trasmettere e custodire.

Per tali ragioni, sulla scia delle indicazioni che ci vengono proposte in questo itinerario sinodale lo Studio Teologico, come sempre, è a servizio delle Chiese locali e del territorio, per venire incontro alle esigenze esposte dai nostri Vescovi con la qualificata operosità intellettuale dei nostri docenti.

Maria, Madre della Chiesa e Sede della Sapienza, ci sostenga in questo nuovo percorso che oggi ufficialmente iniziamo, tracciato dall'amore per la Chiesa e dal generoso desiderio di mettere a disposizione i talenti che Dio ci ha donato.

*Estratto dal discorso di inaugurazione dell’anno accademico del nostro direttore Antonino Sapuppo.

“My life is just as important as everybody else's”

 

Heidi Crowter è una donna di ventisei anni di Coventry, nel West Midlands (Inghilterra). Ha la sindrome di Down e lo scorso 23 settembre 2021 ha perso davanti all'Alta Corte di Londra un ricorso contro la legge che norma l’aborto. 

Per Heidi, la legge discriminerebbe le persone nella sua stessa condizione, in quanto con tale legge si preclude l’opportunità di vivere a tutti coloro che possiedono già nel grembo materno delle alterazioni genetiche che porterebbero ad importanti deficienze fisiche e mentali. Si evince che questa volta non è la Chiesa a condannare l’aborto ma i superstiti di una legge civile, la stessa legge che li avrebbe privati della vita. Per assurdo vediamo come occorra una manifestazione pubblica mediaticamente condivisa che grida alla vita per sensibilizzare l’opinione pubblica ancora una volta sulla questione sull’aborto.

In Inghilterra vi è un limite di 24 settimane per l'interruzione volontaria di gravidanza, ma che può essere superato nel caso in cui si preveda il rischio che il bambino abbia una malattia fortemente invalidante (Abortion Act, 1967), fra cui la sindrome di Down. 

I giudici hanno deciso che l'articolo al centro della questione legale non è discriminante e intende trovare un equilibrio tra i diritti del nascituro e la volontà della donna. Anche se la sua richiesta di modificare la legge è stata respinta, Heidi vuole portare avanti una campagna per i diritti delle persone con sindrome di Down affinché non vengano più considerati persone di serie C, esseri da scartare. Sostiene che nessuno può precludere la possibilità di vivere ad un bambino Down. Ed ha ragione!

 

Professor Antonino Sapuppo,
Direttore dello Studio Teologico "S. Paolo"

 

Fonte: The Guardian

P. IVA 93027780878