Per indicare una luce per tutto quello che stiamo attraversando in mezzo a queste «tenebre dense che non vanno sottovalutate», l'enciclica Fratelli tutti evoca, nel cap. II, la nota parabola lucana del samaritano misericordioso (cfr. Lc 10,25-37). Il Santo Padre indica una fonte inattesa di luce nella figura di «un estraneo sulla strada». È appunto il samaritano, lo straniero ed escluso, che brilla di luce sanante perché ha «un cuore sensibile» per l'altro e decide di «avere tempo» per l'altro.

Proprio questo estraneo, nel suo comportamento responsabile, diventa una luce per rischiarare l'oscurità che ci circonda. Ci ricordiamo facilmente che nella parabola vi è un uomo aggredito, ferito, lasciato a terra lungo la strada. Diverse persone gli passano accanto, ma tutti se ne vanno via, non si fermano. Sono persone con funzioni importanti nella società. Tuttavia non sono capaci di perdere alcuni minuti per assistere il ferito o almeno per cercare l'aiuto.

Uno però si è fermato. Uno solo gli ha offerto vicinanza. Uno fra tutti lo ha curato con le sue stesse mani. Uno per tutti ha pagato per il ferito di tasca propria e si è occupato di lui fino in fondo.

Soprattutto, quello «Sconosciuto» ha dato al bisognoso abbandonato lungo la strada un qualcosa che ci manca tanto spesso in questo mondo affannato e frettoloso: ha saputo dargli il proprio tempo. Quell'uomo è stato capace di mettere tutto da parte davanti a quel ferito e lo ha considerato degno di ricevere il dono del suo tempo. «Ci siamo abituati a girare lo sguardo, a passare accanto, a ignorare le situazioni finché queste non ci toccano direttamente», commenta Francesco, e parla certamente anche dei cristiani.

La pericope evangelica è una delle espressioni più nette e più ricche di «teologia dell'altro», dell'incontro con l'altro. La parabola parte da una domanda fondamentale: «Chi è il mio prossimo?». Non è una richiesta di definire in astratto chi è il prossimo, ma invece una domanda di definire in concreto chi, fra la gente, fra le persone, lo è e chi, invece, non lo è, cioè chi appartiene all'area dei vicini e chi invece è al di fuori di questa area. Gesù risponde con la parabola, in cui c'è un personaggio che non rientra indubbiamente nella categoria di prossimo: il samaritano. Ora, il rapporto che proprio il samaritano instaura, l'incontro con il «mezzo morto», è l'incontro con qualcuno irriducibile al suo mondo, è l'incontro, davvero, con un «altro», nel senso forte e pieno del termine.

Gesù conclude la parabola, facendo, a sua volta, una domanda all'esperto della Legge e la domanda è, in fondo, quella che contiene il vero messaggio della parabola, perché, così come dietro la domanda del dottore c'era il presupposto che il mondo si divide in due (i vicini e i lontani, i prossimi e gli altri), così nella domanda di Gesù c'è un presupposto che scalza il precedente. Gesù chiede: «Chi dei tre che sono passati, si è fatto prossimo?». Per Gesù il mondo si divide in coloro che si fanno vicini agli altri e coloro che si rifiutano di farsi vicini. Allora la categoria di prossimo passa da categoria che divide gli uomini in due, ad essere, invece, la possibilità radicale della nostra esistenza: noi possiamo farci prossimi o possiamo negarci a farci prossimi. La coscienza del samaritano sceglie il bivio della prossimità attiva, che è il farsi prossimo, invece che dell’indifferenza".

Vittorio Rocca, La luce di un estraneo sulla strada. Un’etica della responsabilità, in Synaxis XXXIX/1 2021.

Miryam ha un ruolo di primaria importanza tra le figure femminili della bibbia. Ella rappresenta il prototipo di ogni madre ebrea e, in un certo senso, di ogni maternità cristiana. Miryam è il fattore di possibilità di ogni speranza. È lei che prende l'iniziativa, si presenta davanti alla figlia del faraone, che aveva raccolto Mosè dalle acque, e le favorisce l'aiuto di una nutrice ebrea (Es 2,7-8). Su questo ironico ritorno del bimbo tra le braccia della sua vera madre, alla quale era stato sottratto dall'editto del faraone, viene nutrita anche la speranza della liberazione del popolo. Mosè diventerà il salvatore grazie a Miryam, salvatrice del salvatore. L'audacia e la scaltrezza di una donna diventano, dunque, promessa di salvezza per tutti.

Più in generale, parlare di femminilità nella bibbia significa toccare il cuore dell'identità ebraica. Nella tradizione rabbinica l'appartenenza religiosa passa, appunto, per via matrilineare, da madre in figlio/a. Come mai, in un mondo declinato al maschile e che usa massicciamente le genealogie patrilineari per garantire la continuità nazionale, la trasmissione delle promesse di Dio appartiene genetica-mente alla donna? Tale questione è ancora più intrigante se si pensa che, ormai da duemila anni, è venuto meno il culto templare, monopolio maschile della tribù di Levi. La ritualità domestica, che rappresenta ormai il cuore del culto del giudaismo moderno, prevede che sia la donna per così dire, della "tribù di Miryam" la legittima "liturga" del tempo sacro dello shabbat.

Seguendo la suggestione di una teologa americana, vorrei raccontare un “midrash moderno su Miryam: Mosè, sul Nebo, in punto di morte, si duole profondamente per non aver pensato a qualcuno che custodisse l’identità etnica del popolo appena liberato. Dio, però, non resta insensibile e provvede personalmente a sopperire alla negligenza del grande liberatore. Così, per dono diretto di Dio (non per successione mosaica!), Miryam e tutte le madri ebraiche dopo di lei avrebbero ricevuto il compito di garantire, trasmettere e coltivare la fede esodale del popolo d'Israele. Questo dono che passa direttamente dalle mani di YHWH avrebbe comportato un grande vantaggio storico rispetto alle altre due "istituzioni" mosaiche. Infatti, il ruolo di Giosuè verrà presto reso inattuale dalla perdita d'indipendenza politica sulla Terra promessa. Allo stesso modo distrutto il tempio, viene meno anche il ruolo di Aronne. Il ruolo di Miryam e delle madri ebraiche, invece, mai potrà perdere di attualità. Il compito di Miryam, il più prezioso, consiste nel rendere “contemporaneo" il Dio del Mar Rosso, superando la precarietà storica delle istituzioni politiche e religiose, persino andando oltre le contraddizioni e le distruzioni dei secoli. Miryam avrà il compito di conservare la memoria della salvezza, quasi un fattore epigenetico, ossia quell'istinto primordiale per cui appare evidente che non ci si può salvare da soli.

Carmelo Russo, Finché c’è Miryam, c’è speranza, in Synaxis XXXVIII/2 2020.

Anche noi siamo felici di comunicare l'appuntamento del prossimo 25 agosto per il 60° Anniversario dell'Ordinazione presbiteriale di Mons. Salvatore Consoli, già Preside dello Studio Teologico di San Paolo e oggi nostro docente emerito.
 
La solenne Celebrazione Eucaristica, presieduta dall'Arcivescovo di Catania Mons. Luigi Renna, si terrà presso la Parrocchia Santa Barbara di Ragalna.

Il covid, frantumando l'egocentrismo e l'autosufficienza che albergano in ciascuno di noi, in questi mesi di paura e lutto ha fatto riscoprire il valore della comunità e la verità di quanto ha detto Simone Veil: «siamo, nel profondo, esseri di relazione. È questa la cosa che ci rende persone... Siamo contemporaneamente singolari e plurali. Singolari per la scintilla unica, creatrice e insostituibile che costituisce la personalità di ciascuno. Plurali per la nostra relazione con quelli che ci hanno preceduto nel tempo, le persone che ci circondano nel presente e coloro che immaginiamo dopo di noi».

La presa di coscienza della fragilità e della caducità della vita dovrà spronare a rifiutare tutto ciò che ci divide, ci aliena, ci porta a odiare, a barricarci; dovrà generare la consapevolezza che è terribile e del tutto insensato che ci sia gente molto ricca e tanta altra molto povera e che, in un mondo opulento e sazio, non tutti i neonati abbiano le stesse opportunità; a capire che il bene di ciascuno di noi è, alla fin fine, quello si tutti. Il Gruppo cristiani lombardi ritiene che «la pandemia ha messo a nudo il fatto che viviamo insieme in una casa comune. La risposta a questa crisi sanitaria globale [...] deve riconoscere la nostra intrinseca interdipendenza» che deve tradursi in cooperazione e solidarietà all'interno e a vari Paesi.

L’esperienza della pandemia dovrà aprirci lo spirito confinato sull’io «all'amore e all'amicizia per la nostra realizzazione individuale, alla comunità e alla solidarietà dei nostri “io” da tramutarsi in “noi”, al destino dell'Umanità, di cui ciascuno di noi è una piccola parte. Insomma, il confinamento fisico dovrebbe favorire lo sconfinamento degli spiriti». Dopo la lezione dell'emergenza dovremo impegnarci per una convivenza umana che postula la cura della comunità, ad ogni costo: siamo interconnessi, siamo fratelli e sorelle, da me dipendono gli altri e viceversa. Sarà necessario l'impegno per un nuovo sviluppo di vita conviviale, dove 1’"io" si realizza in un "noi", non dimenticando che l'uomo può sopravvivere solo grazie all'aiuto di altri. […] Concreta la paura ma molto chiari l'indicazione e l'auspicio di papa Francesco: «velocemente però dimentichiamo le lezioni della storia, "maestra di vita". Passata la crisi sanitaria, la peggiore reazione sarebbe quella di cadere ancora di più...in nuove forme di auto-protezione egoistica. Voglia il Cielo che alla fine non ci siano più "gli altri", ma solo un noi . Che non sia stato ennesimo grave evento storico da cui non siamo sta i capaci di imparare...Che un così grande dolore non sia inutile, che facciamo un salto verso un nuovo modo di vivere e scopriamo una volta per tutte che abbiamo bisogno e siamo debitori gli uni degli altri, affinché l'umanità rinasca con tutti i volti, tutte le mani e tutte le voci, al di là delle frontiere che abbiamo creato».

Salvatore Consoli, Pandemia e fraternità universale, in Synaxis XXXIX/1 2021.

Il Santo Padre ha nominato, in data 23 giugno 2022, Vescovo della Diocesi di Kahama (Tanzania), il Rev.do Christopher Ndizeye Nkoronko, del clero della Diocesi di Kigoma, finora Vicario Generale e Segretario Generale del Dipartimento Pastorale. Mons. Nkoronko è stato nostro studente dal 2005, conseguendo la Licenza in Teologia Morale nel 2008, con una tesi dal titolo Family, school of love: afro-christian approach. From Vatican Council II to the present with reference to the Waha of the Diocese of Kigoma- Tanzania. Lo Studio Teologico S. Paolo indirizza al neo-eletto vescovo fraterni e sinceri auguri per il suo ministero episcopale.

Il ruolo delle emozioni nel processo del perdono è stato indagato in psicologia clinica e della salute in relazione al costrutto di intelligenza emotiva, alle strategie di regolazione emozionale nella risoluzione dei conflitti, e distinguendo tra perdono frutto di una decisione consapevole e quello che deriva da uno stato emozionale.

Rabbia, tristezza e rancore sono le emozioni più comuni in relazione ad un'offesa interpersonale. Il rancore, sommato alla sofferenza per il torto subìto, ne incrementa il carattere di sofferenza, tanto più quanto è associato al rimuginìo mentale, cioè a pensieri ripetitivi legati all'offesa e all'offensore.

Come l'oblio può rappresentare un lenimento del dolore psichico, il perdono può configurare una liberazione da questa spirale di malessere.

Con il perdono la vittima si libera da una relazione con il colpevole dominata da emozioni negative come il rancore e/o l'odio, mentre il colpevole riceve la grazia di poter ricominciare un nuovo rapporto con se stesso e forse anche con l'offeso...il perdono dunque è la novità nell'ambito dei rapporti umani che genera novità”(A. Malo, Dono, colpa e perdono, 2013).

La disponibilità alla riconciliazione, al primato del legame, sono la cifra della reciprocità che costruisce un modo nuovo, autenticamente umano di intendere la relazione, al di là dell'arroccamento sulle spirali che coinvolgono ciclicamente diritti, violazioni, colpe, punizioni.

Il perdono necessita del riconoscimento dell'altro, dei suoi limiti come conseguenza della comune condizione di finitudine umana, e dell'empatia come condizione che consente di comprendere l'altro, percepirlo come ‘prossimo’, compatire le sue carenze: solo così si sarà veramente in condizione di ‘mettere il passato nel passato’.

Dati sperimentali mostrano, in conseguenza di ciò, benefici per la salute collegati al perdono, dalla pressione arteriosa al sistema endocrino ed immunitario. La persona incline a dimenticare e a perdonare le offese presenta minori segni di stress e depressione, si libera più facilmente dai vissuti negativi e conflittuali, è più ottimista e soddisfatta. Il benessere relazionale è al tempo stesso benessere mentale e incremento della capacità di adattamento e della qualità di vita. Dunque il precetto evangelico di riconciliazione con la persona da cui si è subito un torto non ha solo una valenza etica ma può anche avere ricadute sul benessere psicologico di chi perdona e di chi è perdonato.

Santo Di Nuovo, Memoria e oblio come presupposti del perdono, in Synaxis XXXIII/1 2015.

Coscienza personale e coscienza civile: perché si è scelto questo legame, tra i molti legami possibili riguardo alla coscienza? Tra le possibili configurazioni di legami che si possono considerare: ne segnaliamo, per esempio, tra i molteplici, altri tre, quali il legame della coscienza con se stessa, e quello della coscienza interpersonale, in particolare, oltre a quello filosofico-teologico dell'intersoggettività, a partire da quello che potremmo definire il paradigma sociologico.

Si è scelto di considerare il legame particolare tra la coscienza personale e quella civile, perché è questo rapporto che costituisce il risvolto della interiorità e della esteriorità della soggettività. Il soggetto-persona ha molte facce, direbbe Pirandello molte maschere, ha una molteplicità di sfaccettature, caratterizzazioni e identificazioni.

Dal nostro punto di vista, ciò di cui, insieme ad ulteriori problematiche, soffre la nostra cultura contemporanea è l'idiosincrasia tra una interiorità che, vittima di un individualismo solipsistico e narcisistico, rende l'uomo un'isola (contrariamente a quanto afferma Thomas Merton), ed una visibilizzazione, in questa società dell'immagine, che restituisce l’esteriorità del soggetto in una virtualità di relazioni invisibili, che sembrano irreali; pensiamo alle amicizie e ai legami virtuali dei social network, tra risorsa e spersonalizzazione.

È come se l'esteriorità della soggettività fosse un'identità che non ha nulla a che fare con l'interiorità. Si tratta di una coscienza non civile, che potremmo definire, in un certo senso, pubblica: una coscienza pubblica in-civile, precisamente in quanto il divario tra il pubblico ed il civile consiste essenzialmente nella mancanza di assunzione di quella responsabilità fraterna e comunitaria che sta alla base dell'impegno politico, inteso come impegno per la polis, impegno del e per il bene comune.

Per sviluppare una corretta educazione della coscienza civile rispetto ai legami sociali, occorre, in prima ed ultima istanza, concentrarsi sulle dinamiche della coscienza personale, per recepire ed educare in essa una autentica libertà. Da più parti, infatti, autorevoli studiosi affermano che non c'è mai stata una civiltà come la nostra nella quale non si è mai stati così poco liberi senza sapere di esserlo. È un paradosso: la civiltà europea non è mai stata cosi priva di libertà come oggi, che siamo nell'epoca del mercato globale e della liberalizzazione di tutto.

Fernando Bellelli, La “polis” forma dei legami di libertà tra coscienza personale e coscienza civile: Rosmini e la Postmodernità, in La Polis: Forme dei legami e libertà tra coscienza personale e coscienza civile, a cura di Piero Sapienza, Quaderni di Synaxis, Numero speciale 6, Edizioni Grafiser, Troina, 2016.

Estratto dalla tesi di Baccellierato di Olga Gulisano.

La scelta della redazione di una tesi esegetica è scaturita dall’amore per la Sacra Scrittura nata in questi anni di studi teologici. L’amore per Dio ha portato all’amore della conoscenza di ciò che lo riguarda, di quella storia che costruita nel tempo ed è insieme Parola e Tradizione, ha permesso uno sguardo più ampio e profondo della fede. L’amore per la conoscenza poi ha spalancato e rivangato l’amore e la riflessione per la categoria di relazione che comprende in sé tutta l’esistenza nei suoi molteplici aspetti, in primis l’uomo e da ciò è stata dettata la scelta del Cantico. L’innegabile fragilità umana racconta di colui che fatto di carne e spirito, in balia di passioni contrastanti, intriso di sublimi intenzioni e propositi e tuttavia capace di grandi misfatti, mentre è chiamato a fare i conti con la propria umanità ferita ma infinitamente bella, cerca la propria realizzazione in un mondo in cui non ha scelto di essere e che acquisisce senso solo quando scopre l’amore. Strabiliante è aver capito che esso si realizza nella misura in cui non è autorealizzazione, quanto invece affermazione prodigiosa del proprio io attraverso e solo grazie ad un tu diverso che completa. Il passaggio obbligato per giungere alla verità di sé stessi, del rapporto col mondo e con Dio è allora la relazione con l’altro. Gli otto capitoli su cui si dispiega la narrazione della storia avvincente di questi due giovani innamorati è ricca di momenti esilaranti, ma anche mesti. Il filo rosso dell’intero racconto è il desiderio irrefrenabile dell’amore suscitato dall’esserci dell’altro. L’iniziativa dell’amore inoltre, quasi del tutto al femminile, rivela l’audacia della figura della donna che nel contesto biblico veterotestamentario emerge più di quanto si pensi. I movimenti dettati delle azioni dei protagonisti, e ancor più della protagonista, oscillano tra le tappe di un percorso ben scandito e che appare ripresentarsi in ogni storia d’amore: il desiderio, la mancanza e la malattia dell’amore, la ricerca ostinata del partner, la sua perdita, il suo ritrovamento e l’unione con lui. L’espressione più alta si ritrova però solo alla fine del componimento, lì è infatti condensato il grande imperativo che comanda l’esclusività di un rapporto che non ha limite neppure di fronte alla morte e che per questo, rivela l’origine divina di tale amore.

Impastati di relazione e viventi per essa, ci si rende conto che da una relazione veniamo e che per suo mezzo siamo chiamati a prendere posto nel mondo senza possibilità di svincolare dal legame con l’altro e con gli altri. Senza voler troppo dire su questo argomento, forse bistrattato più che mai, preme soltanto richiamare all’attenzione la lettura di un passo biblico che nella sfrontata bellezza del suo linguaggio simbolico e così profondamente veritiero continua a sussurrare al cuore del lettore una grande verità. Nascosta tra le righe del testo, o meglio, dietro un nome tanto importante e quasi evanescente, quello di Dio, essa consiste nell’inebriante esperienza della relazione d’amore tra uomo e donna che, umanamente sperimentabile nella sua forza prorompente, sgomenta per la tenacia della sua resistenza di fronte a tutto, persino la morte, mentre atterrisce la sua gelosia che arde come vampe di fuoco. Quest’amore è anzitutto l’amore di Dio, perché solo a lui appartiene e da lui ha origine, perché solo il riferimento a lui rende la sussistente grandezza dell’amore che supera ogni aspettativa unicamente umana. Dell’amore all’uomo è fatto dono e così amore e relazione risultano un tutto inscindibile. In un testo biblico dal tono “profano” e dunque diverso dagli altri trova spazio la Rivelazione, ovvero la voce e il mistero svelato della volontà di Dio che si fa storia per la salvezza dell’uomo e per il raggiungimento del suo progetto originario: la comunione con lui. Tanto grandi allora sono il significato e il senso della Scrittura. Ogni libro biblico, con le sue parole umane e divinamente ispirate, ci trasmette un particolare aspetto della realtà, della verità che le appartiene e così, nella Bibbia, tutto l’uomo è contenuto.

D’altra parte lo sguardo gettato alla speculazione cabbalistica ha mostrato l’abilità umana nel ricercare strade mai battute prima. Ha riferito pensieri altri perché parte della metà sconosciuta di quella medaglia che è la conoscenza del mondo. Nell’intreccio intricato di lettere e numeri, mondi inferiori e superiori affiora l’urgenza di una realtà che tende a ricapitolarsi a partire dal suo stato iniziale: l’affascinante legame tra divino e umano che intercorre e irrora tutte le cose. Di questo emblema è il rapporto tra maschile e femminile e in particolare la consumazione del loro amore. L’amore dunque è già presenza inspiegabile di Dio nell’uomo, l’amore è già presenza redentrice per quei due che si amano dal profondo delle loro anime. Il sapore del viaggio intrapreso nella lettura delle pagine ha il gusto di una conoscenza della relazione d’amore mai definitivamente posseduta: alla portata dell’uomo, lo oltrepassa di gran lunga; proprietà di Dio,

non è rimasta inaccessibile. Tale relazione d’amore bussa ancora all’umanità affinché si adoperi a ricercarla e trovarla conscia di essere il senso nascosto tra le pieghe dell’esistenza stessa.

Tutto questo appare esplicitato dalla confluenza delle letture e analisi del testo proprie sia del metodo storico-critico che di quello cabbalistico con l’intento di far emergere il senso pieno del testo.

Il metodo storico - critico e il metodo cabbalistico si configurano come due vie ognuna delle quali presenta una propria epistemologia. Esse sono frutti diversi dell’unica storia travagliata dell’interpretazione della Scrittura. Il primo metodo ha tentato, con l’uso delle proprie critiche, di addentrarsi nell’origine, nello sviluppo e nella composizione finale del testo senza riuscire a giungere ad affermazioni storicamente e criticamente certe.

Del Cantico non si conosce quasi nulla. Non l’autore, non una data certa di composizione, non il genere letterario che gli appartiene in senso proprio, non il luogo. Le interpretazioni a questo attribuite nel corso del tempo sono state varie e spesso, hanno cercato di rifuggire la tentazione di leggerlo solo sullo sfondo di una sua comprensione letterale. Di fatto bisogna ammettere il grande beneficio dell’interpretazione simbolica del testo: aver mantenuto viva la fede circa l’amore particolare di Dio per la sua creatura. D’altra parte il tentativo di avallarne unicamente l’interpretazione allegorica sembra aver soffocato ciò che il testo ci restituisce nel senso prossimo delle parole utilizzate le quali, a volte, hanno un significato inequivocabile.

L’analisi esegetica di Ct 8, 1-7 ha mostrato il difficile cammino dell’amore a cui si sottopongono ogni donna e ogni uomo per giungere al culmine della maturità relazionale: quella in cui l’amore resiste alla morte e lo vince. È un amore passato attraverso il desiderio dell’altro e quindi della sua appassionata ricerca, è un amore che ha reso malati fino a che non ci si è conosciuti e donati. È un amore perso, ferito e ritrovato. È un amore geloso, dirompente più della forza delle acque, sigillato dall’unione dei due. Da esso e per esso la fatica di un percorso che sembra tornare all’origine: Jah.

Il secondo metodo esegetico, costituito dall’esempio di R. Ezra di Gerona, si inserisce all’interno di una lettura profondamente mistica del testo. Lo sposo è Dio o la sua Gloria, la sposa Israele incontrata dalla Shekhinah, costante presenza divina nella vita del popolo, simbolo di un Dio che non lo ha abbandonato. Il loro

rapporto è vissuto nella tensione costante tra mondo superiore e inferiore. Il primo va conosciuto perché il secondo possa ascendervi e si possa così ristabilire l’unione originaria tra i due, perché tutto possa tornare all’Uno.

I due metodi, distanti tra loro per il tempo e l’approccio conoscitivo al Cantico riescono a restituirci insieme, nella confluenza delle loro distinte interpretazioni, il senso pieno del testo. È vero infatti che la lettura esegetica del metodo storico-critico adotta quale prospettiva d’interpretazione del testo quella “dal basso”, ovvero quella secondo la quale il testo vada anzitutto riletto avendo come punto di riferimento principale il desiderio e l’esperienza dell’amore iscritti e vissuti nella carne dell’uomo e suo aspetto costitutivo.

La lettura cabbalistica, pur tenendo in considerazione nella propria riflessione tale aspetto costitutivo come forza primordiale, conservatrice e perfezionatrice del mondo ha tuttavia, quale punto di partenza e come dimostra il commento di r. Ezra di Gerona, una visione “dall’alto”, quella di Dio e delle sue emanazioni che s’impegnano ad attrarre il mondo creato verso quello sovrastante in cui è possibile unirsi a Dio stesso.

Per la prima lettura il punto di partenza è la visione dell’amore dei due amanti che fa scorgere, in maniera velata, la sua origina divina; per la seconda il punto di vista iniziale è invece quello di Dio che riversa il suo amore nella comprensione del mondo. L’intelligenza del mondo, il suo senso profondo non sono facilmente rintracciabili e intuibili. Il cabbalista diviene un uomo mistico per lo sforzo costante di conoscere la verità iscritta nelle singole lettere della Bibbia, nella conoscenza dell’uomo, del cosmo e delle altre scienze. Solo in tal modo si può giungere alla conoscenza di Dio.

Nella prima lettura, segretamente, dietro l’agire umano si intravede l’origine e il volere divino, nella seconda, segretamente, dietro l’agire e il volere divino s’intravedono il cosmo e l’uomo vie per ritornare a Dio. Il mistico pertanto, nel suo cammino ascetico e contemplativo, non desidera altro che essere restituito al principio del suo essere.

La prima lettura è attenta alle parole del testo da cui traspare tutta la bellezza dell’amore che passa attraverso l’esperienza della sessualità; quella di r. Ezra di Gerona è attenta all’interpretazione allegorica del Cantico tanto da additare Dio quale grande protagonista, insieme al suo popolo, dell’intera vicenda.

In entrambe il desiderio è il filo rosso della ricerca e l’unione il sigillo dell’incontro d’amore. In entrambe sono l’uomo e Dio legati insieme dal vincolo della sponsalità. Gli amanti si rincorrono per unirsi e sentire realizzato in pienezza il loro amore, la Shekhinah e le sefirot si adoperano perché l’uomo e il cosmo possano tornare all’originaria comunione e unione con l’Uno.

La prima lettura accentua fortemente la natura umana dell’amore, la seconda la sua natura divina. Si ritiene allora che la pienezza di senso del testo emerga proprio da tale considerazione. Le due letture si completano poiché dimostrazione del fatto che divino e umano s’intrecciano nella storia e nello sforzo d’interpretazione di quell’unica Parola che è Parola di Dio rivolta all’uomo il quale, a sua volta, effonde il suo cuore dinanzi a lui (cfr. Sal 45). È in tale effusione che l’uomo consegna tutto ciò che gli appartiene e prima di tutto l’amore sperimentato. Il dialogo degli amanti, il vissuto della loro storia d’amore allora, per analogia, è anche il dialogo e il vissuto della storia d’amore tra Dio e la sua umanità. Lo insegna la Scrittura, lo conferma la lettura cabbalistica. La confluenza delle due letture appare restituirci l’ampio respiro della natura dell’arte ermeneutica, rimanendo sempre vera l’affermazione convinta e stupita del salmista: «una parola ha detto Dio, due ne ho udite» (cfr. Sal 62,12). È nella Parola di Dio che si ritrova la ricchezza variopinta delle sue molteplici interpretazioni. Nel Cantico il progetto genesiaco iniziale ritrova il suo eco e la sua conferma; nel Vangelo il Cantico trova il suo compimento. Se l’amore infatti ha origine divina ed è Dio stesso e se Dio lo ha dato in dono e lo ha reso manifesto nella capacità di agire dell’uomo, tutto questo si è pienamente realizzato in Gesù Cristo, vero Dio e vero uomo. La grande speranza di vivere in Dio e per lui ha come unica voce quella che proclama che ὁ λόγος σὰρξ ἐγένετο, il Verbo, Dio si è fatto carne. (Gv 1,14).

La memoria è patrimonio del singolo, ma spesso si esteriorizza in oggetti percepibili dagli altri (narrazioni, documenti, archivi, ecc.). Tali oggetti modificano il carattere di volatilità del ricordo, rendendolo stabile, indissolubile, visibile agli altri. In questo senso il ricordo può essere metaforicamente comparato/contrapposto a una fotografia. Quest’ultima, in quanto oggetto materiale, fissa l'immagine e la rende persistente al tempo, una traccia indissolubile della memoria, differentemente dalla mente del soggetto dove il ricordo/ immagine muta, acquistando tratti diversi col trascorrere del tempo.

La memoria non è esattamente specchio del passato, ma piuttosto un insieme di tracce, impronte, frammenti indiziari, che chiedono di essere interpretati, dove il ricordo rappresenta il principale elemento attraverso il quale la memoria si dipana e si ricostruisce. Spesso diventa cultura condivisa ed è denotata con l'espressione, tanto diffusa quanto problematica, di "memoria collettiva", indicando il quadro sociale che orienta e rafforza i singoli ricordi attraverso strategie di legittimazione.

Nella sociologia della memoria, tale concetto emerge dalla mediazione, punto d'incrocio e integrazione fra memorie diverse, all'interno della quale la persona ha un ruolo attivo nell'organizzazione dei propri e degli altrui — per virtù del processo interattivo — ricordi. La memoria collettiva così costituita influenzerà significati individuali e significati condivisi creando un intenso rapporto tra memoria e senso, producendo cultura, intesa come «rete di significati continuamente riformulati dalle interazioni e dalle pratiche sociali».

Questa è una dimensione intersoggettiva della memoria: condivisa tra più soggetti, comunicata tra soggetti. Non si tratta di una "facoltà" posseduta da un individuo indipendentemente dagli altri, ma di un oggetto di scambio, al quale più persone fanno riferimento. In questo caso l'elemento centrale del processo, che non esclude momenti di conflittualità, è la negoziazione. All'interno di tale sequenza il passato non è mai definito una volta per tutte, ma viene riletto continuamente in una prospettiva di continuità nel cambiamento:

“continuità di identificazione con un elemento essenziale, fondante, che si può rintracciare in un vissuto di eredità — di valori — comune; cambiamento nei modi differenziati di porsi rispetto a questo passato, costruendo la propria identità nel presente” (M. Rampazi, I Giovani, la memoria e la storia, relazione al Convegno-seminario su "L'età incerta, riflessioni sull'adolescenza", Pavia, 18 dicembre 1998).

Liana Maria Daher, Sociologia della memoria: strumento per l’interpretazione del passato, filtro per la comprensione del presente, in Synaxis XXXIII/1 2015.

Mercoledì 18 maggio vi aspettiamo nel nostro Studio per l’incontro dibattito sul libro di “Fraternità segno dei tempi. Il magistero sociale di Papa Francesco”, edito nel 2021 da Libreria Editrice Vaticana.

All’incontro, moderato dal docente Adriano Minardo, saranno presenti i due autori, il cardinale Michael Czerny, prefetto del Dicastero per il servizio dello sviluppo umano integrale, e Christian Barone, docente dello Studio Teologico S. Paolo.

Vi aspettiamo a Catania in viale Odorico da Pordenone 24 alle ore 18.00.

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