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"Ti farò mia sposa". Immagini sponsali della relazione fra Dio e il popolo in alcuni profeti

Estratto dalla tesi di Baccellierato di Niriana Lo Faro.

Il presente lavoro nasce dalla necessità di rispondere ad una delle domande postemi nel corso degli anni degli studi teologici che nasce dall'avvertire, così come è avvenuto per Marcione, una distanza incolmabile fra il Dio dell’Antico Testamento e il Gesù Cristo del Nuovo Testamento. Accostandomi alla Sacra scrittura con più attenzione e con più amore, ho conosciuto un Dio che si dà attraverso la parola profetica per comandare e condurre, educare e crescere, rimproverare e promettere punizioni, amare e farsi amare… insomma, per salvare il suo popolo. E nel fare ciò, si palesano sentimenti paterni, che sconvolgono, a primo acchito, al pensiero di doverli attribuire al Dio Onnipotente. Mi sono chiesta come potesse conciliarsi la definizione di Pio X, dell’Essere perfettissimo, Creatore e Signore del cielo e della terra, senza difetto e senza limiti, con il Dio Creatore e al contempo Padre e Sposo innamorato e tenero, e spesso infelice in quanto non corrisposto, dell’Antico Testamento. Il Dio «perfetto», cioè senza alcun difetto e concentrato di Potenza, Sapienza e Bontà, ha instillato e circoscritto un’idea di Dio che sembra entrare in conflitto con l’idea di Dio Padre Misericordioso, a cui ci rivolgiamo, certi che ci ascolti e ci ami nella nostra misera umanità, peraltro, misera sì, ma inspiegabilmente creata ed amata da Lui che è il Perfettissimo. Sembra esserci una distanza incolmabile, che da una parte ci fa pensare di non essere mai all’altezza di potergli chiedere perdono, lasciandoci vivere in una disperazione inguaribile, cinica e nichilista e dall’altra ci fa chiedere come mai questo Dio incomprensibile abbia voluto creare un uomo così difettoso. E questo Dio perfetto, totalmente Altro, nel Nuovo Testamento, s’incarna persino nel Cristo sofferente! Partendo da quanto appena detto, mi propongo nel presente lavoro di rileggere brani scelti di alcuni profeti nei quali emergono proprio quei sentimenti di Dio che ci fanno comprendere come Egli sia davvero il Perfettissimo nel senso filosofico della riflessione, ma è anche il totalmente Altro che entra in autentica relazione con il suo popolo. Ho analizzato le metafore sponsali, della vigna con il vignaiolo e del matrimonio, che descrivono il rapporto che Dio ha voluto con il suo popolo e che trova compimento nella storia della salvezza veterotestamentaria. Il metodo usato dal profeta, ispirato da Dio, è l’utilizzo del piano correlativo, grazie al quale la metafora sponsale è posta in essere. Esso mette in relazione due realtà diverse, in modo tale che una si comprenda alla luce dell’altra, creandone una terza in cui l’artista poetico non può fare a meno di «trasmettere quel patrimonio di parole, di esperienze, di immagini, per parlare di Dio e a Dio» e dentro la quale si sente compreso -prendere con sé- da Dio ed amato di un amore divino. Il profeta restituisce quest’amore a Dio e al popolo ma non può farlo pienamente ed esaustivamente. Egli può soltanto lasciare intendere o alludere ad una realtà altra, la cui bellezza appare ma non si svela mai del tutto. La ragione di questo sta nell’incapacità dell’uomo di poter vedere palesemente la magnificenza di Dio, la sua gloria.

Il tema della vigna è la metafora poetica e sponsale di Israele utilizzata in una visione positiva, innanzitutto da Os 9,10: «Come uva nel deserto ho trovato Israele», e Os 10,1: «Israele era una vigna lussureggiante che produceva molto frutto». Osea vede Israele come una vite rigogliosa che dà frutto abbondante ma che poi a causa di questa ricchezza moltiplica gli altari e il suo cuore diviene falso. Anche il profeta Amos vede nel progetto di restaurazione della salvezza divina che «i monti stilleranno il vino nuovo e le colline si scioglieranno. Muterò le sorti del mio popolo Israele, ricostruiranno le città devastate e vi abiteranno, pianteranno vigne e ne berranno il vino, coltiveranno giardini e ne mangeranno il frutto» (Am 9,13-14). La metafora della vigna sembra essere una delle metafore sponsali perfette che ritrova la sua massima espressione poetica nel Cantico dei Cantici (1,6; 7,9; 8,11-12), e introduce nel rapporto d’amore fra Dio e l’amato popolo. Anche il salmo 80 muove dalla metafora della vigna «per descrivere la storia del popolo nelle sue fasi salienti: liberazione dall’Egitto, possesso della terra ed esilio11»; si legge infatti, nel Sal 80, 9,13: «Hai sradicato una vite dall’Egitto, hai scacciato le genti e l’hai trapiantata. Le hai preparato il terreno, hai affondato le sue radici ed essa ha riempito la terra. […] perché hai aperto brecce nella sua cinta e ne fa vendemmia ogni passante?». In Isaia, invece, così come in Geremia e in Ezechiele, la metafora della vigna esplicita anche l’amarezza del Signore di fronte a cotanta indifferenza del popolo ed al suo tradimento. In Ezechiele 15, il legno della vite è utile solo per essere bruciato, ma il legno intatto non serve a niente: «Perciò così dice il Signore Dio: Come io metto nel fuoco a bruciare il legno della vite a posto del legno della foresta, così io tratterò gli abitanti di Gerusalemme» (Ez 15,6). Ed ancora Ez 19,10-14: «Tua madre era come una vite piantata vicino alle acque. Era rigogliosa e frondosa per l'abbondanza dell'acqua; ebbe rami robusti buoni per scettri regali; il suo fusto si elevò in mezzo agli arbusti, mirabile per la sua altezza e per l'abbondanza dei suoi rami. Ma essa fu sradicata con furore e gettata a terra; il vento d'oriente seccò i suoi frutti e li fece cadere; il suo ramo robusto inaridì e il fuoco lo divorò. Ora è trapiantata nel deserto, in una terra secca e riarsa; un fuoco uscì da un suo ramo, divorò tralci e frutti ed essa non ha più alcun ramo robusto, uno scettro per regnare. Questo è un lamento e come lamento è passato nell'uso». Altri sono i passi dove i profeti utilizzano la metafora della vigna e della vite per indicare un futuro funesto o di salvezza al popolo d’Israele, ma mi preme citare il verso emblematico di Geremia 2,21: «Ti avevo piantato come una vigna scelta, tutta di vitigni genuini; ora, come mai ti sei mutata in tralci degeneri di vigna bastarda?». In Geremia, in poche battute si legge l’amore (vigna scelta), la delusione (come mai ti sei mutata in tralci degeneri), e la rabbia per il tradimento (vigna bastarda) di Dio, che si palesano negli altri testi succitati e come vedremo di seguito anche in Is 5,1-7.

La scelta del profeta nel preferire l’immagine della vigna come realtà sponsale piuttosto che altro, sembra azzeccata perché «lascia intuire che tutte le operazioni della vita agricola sono manifestazione di una genuina saggezza che ha la sua origine in Dio stesso. Non sono operazioni casuali, senza ordine, condotte senza intelligenza. Al contrario, ci vuole una profonda conoscenza degli elementi e delle stagioni per sapere coltivare il suolo, seminare i cereali e poi raccogliere il frutto del proprio lavoro». L’insegnamento di Dio si traduce in una sapienza del fare, in una sapienza pratica che non solo può essere rivolta a tutto il popolo, ma s’impara con immediatezza. Il popolo sa bene cosa significhi preparare il terreno per l'implementazione delle viti: o lo scasso e la vangatura che consiste nel rompere le zolle di terra per poi sollevarle in modo tale che il terreno risulti più soffice, areato e drenante. Poi si passa all’impianto delle barbatelle o giovani viti, le quali si scelgono a seconda del clima e della qualità di uva che si vuole produrre. Per piantate le barbatelle, è necessario costruire una spalliera di sostegno alle viti che cresceranno, fatta da pali di legno di castagno, dritti e robusti, posizionati ad una distanza precisa l’uno dall’altro. Quando le barbatelle attecchiscono, bisogna compiere un passaggio fondamentale per la salute della singola pianta che è di grande valore pratico ma direi anche morale: la sbarbatura. Questa consiste nel recidere, dopo un anno dalla piantagione, le radici più superficiali che non penetrando in fondo al terreno, si espongono al sole e al suo calore facendo disperdere energia alla pianta. Si facilita così la crescita della piccola barba radicale e della radice centrale che affondano nel terreno e irrobustiscono se stesse e la vite. Dunque, al contrario di come potrebbe sembrare, un numero maggiore di radici, non dà alla pianta maggiore possibilità di vigore, ma la appesantisce, la sciupa e nel tempo la espone a malattie ed a morte. Ciò che è superficiale va tagliato! Bisogna prestare la massima attenzione a ciò che è necessario per una vita\vite rigogliosa e fruttifera. Per noi siciliani, della zona orientale, è molto familiare lo scenario vinicolo; riempiamo i nostri occhi della bellezza dei vigneti, simmetrici e perfettamente allineati e, poi, guardando singolarmente le piantine di vite, ci soffermiamo sulle loro strane forme contorte che si avvolgono al loro diritto palo di castagno. È il loro modo di opporsi alla legge ferrea del traliccio. Accettano di crescere verso l’alto ma presentano tutte le storture possibili. In queste storture, nodi, curve e tornanti, mostrano tutto il loro fascino. Ma si ripiegherebbero su se stesse e marcirebbero se non fossero costrette dal loro tutore a crescere verso l’alto. Ma in Is 5, questo lungo lavoro di coltivazione si è dimostrato inutile, a tal punto da meritare queste parole da Dio: «Ora voglio farvi conoscere ciò che sto per fare alla mia vigna: toglierò la sua siepe e si trasformerà in pascolo; demolirò il suo muro di cinta e verrà calpestata. La renderò un deserto, non sarà potata né vangata e vi cresceranno rovi e pruni; alle nubi comanderò di non mandarvi la pioggia» (Is 5, 5-6).
Il passo di Is 5 potrebbe essere un canto di lavoro che accompagna la faticosa operosità dei vignaioli e la loro amarezza provata dinanzi allo scarso raccolto, nonostante i faticosi lavori fatti, ma, allo stesso tempo, nasconde il canto d’amore di un uomo per la sua donna ingrata che gli fa soffrire ripetute pene d’amore. Mello dà tre letture possibili della tipologia di questo passo: è un canto d’amore che il diletto offre all’amata, ma anche una parabola sapienziale che, legandosi all’esperienza quotidiana e comune della viticoltura, descrive minuziosamente tutte le attenzioni che il vignaiolo riserva alla propria vigna.
Ed infine troviamo lo svelamento del significato della metafora, che rivela l’identità del vignaiolo, il quale emette un giudizio di condanna nei confronti della vigna. L’intreccio di queste tre componenti giova a creare una strategia giudiziaria efficace in quanto occulta inizialmente l’accusa, per fare in modo che l’ascoltatore non si senta accusato e che anzi ascolti incantato il canto d’amore e ben si disponga a riconoscere gli errori commessi. Ma la vigna «produsse, invece, acini acerbi»! La radice ebraica bāʼāsh significa in generale «puzzare» e quindi suggerisce l’idea di acini marci ed è lo stesso termine riferito alla manna, che in Es 16, 20-24, conservata per l’indomani, «imputridiva». Mello preferisce seguire il parere dato da un grande commentatore che, oltre a sapere l’ebraico, era un viticultore. «Rashi usa il termine tecnico di “lambrusca”, un vitigno selvatico che produce acini amari. Sarebbe lo stesso termine utilizzato da Ger 2,21 in cui la vite è “straniera” o “bastarda”» 33. Questa interpretazione ben si collegherebbe con il proposito del capitolo di Is 5.
La rabbia di Yavhè in Is 5,3-6: dunque «tra tanta festa ci si dimentica del festeggiato» che tutto ha donato: la vigna e tutti quei gesti benevoli e salvifici perché producesse uva buona. Ecco che, allora, il canto festoso diventa un gesto tradizionale, popolare ma non religioso, in quanto rende un grazie superstizioso ad un dio altro e non al Dio d’amore d’Israele. Quindi il profeta annuncia catastrofi, non perché queste debbano avvenire ma, per destare l’attenzione del popolo, metterlo in guardia dal fatto che senza buone relazioni fra gli uomini non ci può essere una buona relazione con Dio e viceversa. I vv. 5-6 mostrano cosa Dio, arrabbiato, sta per fare alla sua vigna: toglierà la siepe di confine perché da fuori possa essere considerata terra di pascolo, aperta alle pecore e alle capre che mangeranno i germogli delle viti e non potranno più fare frutto. Ma ancora, non solo toglierà la siepe, demolirà anche il muro di cinta che aveva costruito al suo intorno, a maggiore protezione di chiunque avesse cattive intenzioni; non la proteggerà più. La esporrà alla mercé di tutti, così come il popolo ha mostrato di volere, ratificando tale richiesta con la sua condotta. La renderà un deserto, perché non la vangherà più, non la dissoderà e non la poterà. Sembra quasi che Dio voglia riavvolgere il nastro del tempo perché è stato tutto lavoro inutile. Ritornerà terreno incolto, dove rinasceranno pruni selvatici e rovi che lo renderanno fitto e spinoso, praticamente inaccessibile. Non arriverà nemmeno pioggia, perché Dio non lo guarderà più. Il Signore ricorda, nel canto, la bellezza (da kόσμος che significa ordine nel senso della bellezza dell’ordine) con cui aveva creato la sua vigna e il suo amato popolo l’ha distrutta, perché ha preferito il disordine. Tanto amore nel volerla perfetta, quanta rabbia nel distruggerla!
La delusione di Yavhè in Is 5,7: Sia Marconcini che Ravasi scelgono di tradurre le ultime quattro battute del v. 7, in modo tale da conservare la sonorità originale del verso, nel modo seguente: «Egli si aspettava diritto ed ecco delitto, attendeva giustizia ed ecco nequizia». Dunque, il Signore si attendeva sᵉdāqāh (giustizia) ed ecco invece che udì solo seˊaqah (grido degli oppressi), si aspettava miŝpāt (rettitudine) ed ebbe miśpāh (spargimento di sangue). Anche qui, l’utilizzo dell’allitterazione, serve a rimarcare il senso di quanto detto e aiuta a memorizzarlo e a fissarlo nella mente. Nel momento in cui il popolo volta le spalle a Dio, la confusione generata storpia le parole e i concetti e ciò che sembra bello e ordinato, che sembra possa provenire da Dio, non lo è. In nome della sᵉdāqāh di Dio si commettono ingiustizie, presumendo di poter fare a meno di lui, l’amore per l’altro diventa oppressione e prevaricazione. Il miŝpāt divina, consegnata all’uomo, è facile quando Dio è il metro con cui si misurano le cose. Tolto questo strumento, l’uomo non ha i mezzi per poterla attuare e diventa esso stesso misura delle cose e del giudizio sul mondo, ed ecco il miśpāh. Secondo Isaia, «si può stabilire se una comunità è a posto di fronte a Dio dal modo in cui essa tratta il diritto divino. Il modo in cui si pratica il diritto è la prova eminente della considerazione in cui si tiene Dio».
« LA SPOSA RIBELLE (GER 3,12; EZ 16,8).

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