L’espressione rituale delle emozioni dice l’interazione e la coesione della comunità, che deve in un certo senso riorganizzare l’assenza, ridefinendo il tessuto delle relazioni interpersonali tra coloro che sono rimasti in vita. Ora, questo modello antropologico ha certamente una tenuta che, nel nostro presente, va al di là di qualunque visione si possa avere della morte: che la si legga in una prospettiva sorretta dalla fede, o la si consideri l'ultima parola del racconto di ogni vita, la morte chiede lo spazio per essere ospitata, per essere profondamente accolta. Ospite inquietante per la dimora di chi resta da questa parte, ha bisogno che i vivi possano contemplarla nei tratti di chi se ne è andato, possano, una volta tornati alla vita di prima che non sarà mai più come prima, fare memoria dei momenti del congedo, ripercorrerne gli istanti, la fatica, la dolcezza, l’ineffabile silenzio.
Tutto questo è mancato — e soprattutto mancherà — a moltissime persone per le quali la separazione fisica definitiva dai propri cari è stata siglata — nei casi più fortunati — dalla sbrigativa consegna di un sacchetto di effetti personali appartenuti al defunto. Si fa strada nella
mente il fondato timore che questo addio negato possa produrre frutti di dolore nei giorni che verranno. Di quel dolore sordo che sfocia appunto — per tornare al punto da cui siamo partiti — nella accidia: senso di negazione della vita che deriva, come abbiamo visto, dalla privazione del lutto, dalla sua sospensione ad infinitum.
E allora ci permettiamo di sperare che sarà possibile, quando l'incubo della pandemia sarà alle nostre spalle, immaginare e soprattutto realizzare una nuova gestualità della cura rivolta alle persone che hanno sperimentato questa impossibilità del congedo: se i loro cari sono stati numeri per le statistiche, non smettono certo di essere uomini e donne con cui il dialogo silenzioso potrà essere ancora fecondo. Restituire alla compassione lo spazio che le è stato sottratto, accogliere a ritroso le parole, pronunciate o taciute, sulla soglia del transito all'altra riva, può essere un canto di autentica resistenza alla sparizione e, insieme, una custodia della presenza di chi ci appare inghiottito dall'Assenza. Dedicare a quei morti, in maniera collettiva ma non generica, in ogni chiesa, o in altri spazi pubblici, una celebrazione che sia il loro funerale, aperto a tutti coloro che vorranno donare loro l'impareggiabile tributo della memoria, nel rispetto della distanza anche tra credenti e non credenti, potrebbe essere il primo segno di quella Comunione che — se è mancata almeno sacramentalmente nel primo tempo della pandemia — non smette di interpellarci come esigenza di relazione profonda tra noi viventi e il Vivente, tra ciascuno di noi e la vita, anche nel suo volto più doloroso. Perché le lacrime, pure sgorgando, possano essere finalmente pacificate, e non diventino gelo, non diventino pietra.
Donatella Puliga, Il congedo negato, in Synaxis XXXVIII/2 2020, Studio Teologico S. Paolo