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L’inferno nella Trinità? Il “sub-abbraccio” trinitario di H. U. von Balthasar nel solco della Teologia della grazia

Estratto dalla tesi di Baccellierato di Angelo Oliveri

Il descensus ad inferos

Se finora ci siamo soffermati sul momento della croce, adesso è il momento di spendere qualche parola sull’insondabile mistero del Sabato santo, caratterizzato dall’evento - tanto caro alla Tradizione - della “discesa agli inferi”. Essa, infatti, è prolungamento indispensabile dell’opera salvifica di Cristo, conseguenza estrema dell’esperienza della croce. In un certo senso, risponde anche ad un’esigenza di “perfezione” legata alla morte di Cristo, la quale, per essere appunto “perfetta”, non può che passare anche dall’oscura realtà degli inferi. Questo concetto viene spiegato esaustivamente da N. Cusano, citato appunto da Balthasar:

«la visione (visio) della morte per esperienza immediata (via cognoscentiae) costituisce la pena più perfetta. Ora, poiché la morte di Cristo fu perfetta, (…) l’anima di Cristo discese all’inferno (ad inferna) dove si ha la visione della morte. La morte, infatti, si chiama inferno (infernus) e proviene dall’inferno più profondo (ex inferno inferiori). L’inferno inferiore o più profondo è il luogo dove si ha la visione della morte. Quando Dio risuscitò il Cristo lo strappò, come leggiamo negli Atti degli Apostoli, all’inferno più profondo (…). La sofferenza di Cristo, quella di cui è impossibile pensarne una maggiore, era come quella dei dannati che non possono essere dannati ancora di più, arrivò cioè alla pena dell’inferno (usque ad poenam infernalem) … Egli è il solo che attraverso una morte siffatta penetrò nella gloria». (1)

Se da una parte è chiaro che l’esperienza degli inferi fosse necessaria perché Cristo potesse essere pienamente “solidale” con coloro che sono morti – e anche perché la sua stessa morte fosse “perfetta” - non è ancora del tutto chiaro il motivo per cui la sua morte debba essere “maggiore” di quella di tutti gli altri uomini. Non sarebbe già sufficiente, in altre parole, che un Dio che sperimenti la morte come gli altri uomini, senza necessariamente patirla maggiormente? Questo discorso, però, non si conviene a Cristo, il quale «risparmiando ai morti, nella propria solidarietà con essi, tutta l’esperienza della morte (come poena damni) – cosicché un raggio celeste di fede, carità e speranza ha sempre rischiarato l’abisso – prese su di sé tutta questa esperienza, sostituendosi ad essi». Perciò la sua morte è stata di gran lunga più sofferta di qualsiasi altra, perché soltanto lui ne ha sperimentato il tremendo “pungiglione”, divenendo con questo «l’unico che, andando al di là della comune esperienza della morte, ha misurato la profondità dell’abisso». (3)

Definito questo aspetto, ci poniamo un’altra domanda: cosa è accaduto realmente negli inferi? In cosa il Sabato santo differisce dal Venerdì della Passione? Cusano, come abbiamo visto, fornisce un’espressione emblematica in questo senso: parla infatti di «visio mortis». Occorre però approfondire questo concetto:

«l’oggetto di questa visio mortis non poteva essere costituito né da un inferno abitato – osserva Balthasar – perché allora sarebbe la contemplazione non di una vittoria, ma di una sconfitta; né da un purgatorio abitato, perché questo teologicamente non può esistere “prima” di Cristo, come diremo; né da un “limbo” abitato che, nella visione biblica, viene ad essere proprio svuotato dalla “discesa” di Cristo; esso può essere costituito unicamente dalla pura “sostanzialità” dell’inferno come “peccato in sé” (…). Secondo questa interpretazione l’inferno è un prodotto della redenzione, che ha bisogno solo ormai di essere “contemplato” ne suo in-sé dal Redentore per diventare, nella sua perdizione assoluta, un “per-lui”, ciò su cui egli riceve, nella risurrezione, il potere e le chiavi». (4)

Quello citato è sicuramente uno dei passi più significativi dell’opera di Balthasar, almeno in quel che riguarda la sua concezione dell’inferno. Con la discesa agli inferi, Cristo è posto dinanzi al “nulla” che li abita, all’oggettivazione del non-senso, dell’inimicizia, quando con essa non si intende «il peccato dell’uomo individuale, (…) ma il peccato astratto da questa individuazione, contemplato nella sua nuda realtà» (5). Ancor di più, Cristo è proprio travolto da questo non-senso fino a divenirlo egli stesso. Perciò, osserva Balthasar, egli contempla la sua «seconda morte», nel senso che egli stesso, sprofondato nell’abisso e abbandonato dal Padre, è l’oggetto della sua tormentosa contemplazione. Qui Cristo è dunque costretto ad un’esperienza passiva, che differisce profondamente dalla donazione attiva di sé compiuta sulla croce (ragion per cui, per rispondere alla nostra domanda, l’esperienza “passiva” del Sabato santo differisce da quella attiva della Passione).

Se da una parte, però, abbiamo cercato di capire cosa sia accaduto a Cristo con la discesa agli inferi, dall’altra non abbiamo ancora chiarito cosa invece sia accaduto all’inferno (in quanto tale). Balthasar, nel passo pocanzi citato, lo spiega con straordinaria efficacia: «l’inferno è un prodotto della redenzione, che ha bisogno solo ormai di essere “contemplato” nel suo in-sé dal Redentore per diventare, nella sua perdizione assoluta, un “per-lui”». Cristo, in altre parole, è sceso all’inferno perché esso smettesse di essere una mera esistenza, fine a se stessa, inanimata (un po’ come il fango informe di Genesi), divenendo piuttosto una “pro-esistenza”, un “esistere-per-lui” (come lo è divenuto l’uomo-nephes, all’atto della creazione). In questo senso, potremmo considerare la discesa agli inferi come momento riepilogativo o, meglio ancora, di “completamento” dell’opera creatrice, punto di incontro tra protologia ed escatologia. Se, come Ratzinger, intendiamo la creazione del mondo come «il momento in cui un ente per la prima volta (…) è stato in grado di formare l’idea di Dio», in modo tale che «il primo Tu che - per quanto balbettando - venne rivolto da bocca d’uomo a Dio, designa il momento in cui lo spirito è comparso nel mondo» (7), allora ci accorgeremmo che “creazione” altro non sia se non il passaggio dall’esistenza alla pro-esistenza, dalla solitudine cupa al dialogo con l’alterità, che prima ancora di rivelare il “tu”, plasma l’“io” che lo conosce. In questo senso, Cristo ha raggiunto l’inferno perché anche l’inferno, da qual momento in poi, potesse rivolgere il suo “tu” al Redentore, potesse avere Cristo, cioè, come interlocutore. Anche l’inferno, di conseguenza, si deve considerare raggiunto dalla redenzione, specie nella misura in cui, proprio come l’uomo di Genesi, anch’esso abbia smesso di esistere per se stesso, iniziando ad esistere per Cristo. Perciò, come dicevamo, il descensus potrebbe essere definito “completamento” dell’opera creatrice, poiché in esso Dio, mediante il Figlio, recupera a sé quella porzione di creazione che invece, con il peccato, si era autonomamente posta fuori dallo spazio salvifico di grazia.

Rimanendo nel merito degli effetti che il passaggio di Cristo ha generato sull’inferno, e quanti lo abitavano prima del suo ingresso, sarà ancora necessario considerare alcune osservazioni del Nostro autore:

«là dove nello Scheol emerge qualcosa di autenticamente vivo del cielo, questo non è già più lo Scheol. Fede, speranza e amore derivano da Dio e non possono essere nel luogo della dannazione, tanto più in seguito alla discesa di Cristo, il portatore e dispensatore di questi doni celesti, che con la sua discesa toglie la disperazione dello Scheol. Da quando nell’“inferno” c’è speranza, la luce di Cristo vi è penetrata. Se dunque la vittoria sullo Scheol è un evento straordinario, che si irradia dall’unica croce del Redentore, l’effetto di questo evento è unico nel suo genere ed agisce (parlando nel tempo del mondo) in modo retroattivo e in avanti». (8)

In sostanza, quello che Balthasar tiene a sottolineare è il fatto che la discesa di Cristo agli inferi non possa in alcun modo lasciare questo luogo indifferente, come invece avrebbero voluto gli scolastici – che, come sappiamo, limitano gli effetti della redenzione al solo «pre-inferno». Poiché, se anche solo una parte dell’inferno permanesse, al modo dantesco, nella sua inscalfibile immutabilità, allora ciò equivarrebbe a svuotare di senso la stessa redenzione di Cristo. Scrive infatti:

«lo svuotamento dell’Hàdes, in cui era caduta l’umanità, la cancellazione di questa realtà eterna, è il fatto assolutamente elementare che rende veramente il cristianesimo la religione della redenzione. Uno ha attraversato il mondo della perdizione e sotto i passi compiuti da colui che era il più perso e il più abbandonato, questo carcere è crollato. L’essere-cristiano esiste innanzitutto per questo evento; in questa discesa il cristiano è battezzato, come sanno bene i Padri della Chiesa».  (9)   

Certo, sorge spontanea una domanda: quando Balthasar parla addirittura di «cancellazione di questa realtà eterna», lo fa intendendo che davvero l’inferno, in senso lato, non esista più – sconfinando, dunque, nell’aporia dell’origenismo? A questa domanda cercheremo di rispondere più avanti, quando confronteremo la teoria dell’apocatastasi con le conclusioni del teologo di Lucerna. Per il momento, ci basti ascoltare quanto da lui aggiunto - in appendice a questo discorso – circa il Cristo di Mt 25: «egli soltanto decide del loro cielo e del loro inferno, soprattutto perché nella sua discesa e ascesa non soltanto li ha conosciuti come sue estreme possibilità, ma li ha vissuti fino in fondo, così che chi è mandato in paradiso o all’inferno rimane all’interno dell’ambito del regno di Cristo, dinanzi al quale devono piegarsi le ginocchia sia di quanti sono “sotto terra” che di coloro che sono in cielo e sulla terra». Ciò che è dunque essenziale riconoscere è l’estensione del dominio cristologico fino al mondo oscuro degli inferi. Se questo significhi addirittura ammettere che non esista più l’inferno, né la reale possibilità di decidersi per esso, lo vedremo in seguito.

Un ultimo aspetto che intendiamo considerare, a conclusione di questo paragrafo, riguarda ancora la condizione di Cristo nell’evento del Descensus. La sua impareggiabile sofferenza, infatti, non fu soltanto dovuta all’abbandono del Padre, che lo respinse come “peccato”, ma anche all’abbandono dell’uomo, che lo allontanò perché “incompressibile”. Vediamo di spiegarci meglio. Balthasar affronta questo tema ne Il tutto nel frammento, quando parla della “passione della Parola”. In questo contesto, riferendosi appunto al tema della passione, egli afferma che di essa sia impossibile definire una “logica”, ammettere, cioè, la possibilità di una comprensione umana. Questo, però, sembrerebbe entrare in contraddizione con quanto affermato in precedenza, che cioè l’evento del Golgota sia evento rivelativo. Come può infatti un evento che si dice “rivelativo” sfuggire, al tempo stesso, alla comprensione umana? Occorre dunque una precisazione: la croce, si dovrebbe dire, assume certo dei connotati rivelativo-epifanici, ma solo se vista con gli occhi della fede, che in essa vi scorge il dramma d’amore tra il Padre e il Figlio. Al di fuori di questa prospettiva, la passione rimane un fatto assolutamente incomprensibile.  Scrive infatti Balthasar: «quel Logos, in cui tutto nel cielo e sulla terra è raccolto e possiede la sua verità, cade egli stesso nel buio, nella angoscia, nella paralisi d’ogni sentimento e d’ogni conoscenza, nella via senza scampo, nell’abisso, nell’assenza di ogni rapporto col Padre, (…) in un nascondimento, che è proprio l’opposto dello svelamento della verità dell’essere». (11)  Perciò, nel mistero della croce, il Verbo fatto carne, che aveva assunto finanche le categorie logico-espressive dell’uomo perché potesse parlarne il linguaggio, viene irrimediabilmente sottratto all’umano, e dunque alla sua comprensione. Quello che infatti la Parola deve dire adesso, dalla croce, non c’è più linguaggio che sappia esprimerlo, né logica che possa sistematizzarlo: «si tratta letteralmente dell’“indicibile”, che arriva da un punto infinitamente più lontano di tutto ciò che entra nella situazione dialogica finita» (12). Il silenzio che, dal Golgota, si estende all’intera esperienza del Sabato santo, non è pertanto semplice vuoto o assenza di parole, ma “trascendimento” del discorso, linguaggio altro, del tutto incomprensibile perciò.

Balthasar descrive questa situazione di estrema solitudine del Figlio con toni che si avvicinano alla poesia:

«la parola di Dio nel mondo è diventata muta, nella notta essa non chiede più di Dio; essa giace sepolta nella terra. La notte che la copre non è una notte di stelle, ma notte di desolazione profonda e di alienazione mortale. Non è un silenzio pieno di mille segreti d’amore, che scaturiscono dalla avvertita presenza dell’amato; ma silenzio di assenza, di distacco, di vuoto abbandono, che arriva dietro tutti gli strappi dell’addio; la stanchezza è tale che non può più sopportare lo sforzo del dolore. E cosi rimane solo l’ottusità sorda di un parlare e pensare Dio puramente umano, puro strepito di logica formale, di vuoti sillogismi (…). Questo scheletro logico-matematico è espressione de fatto che il Logos diventato carne è morto e sepolto, e che la logica che dice il vero rimane sospesa per questi tre giorni». (13)

 

1 Niccolò Cusano, Excitationes, cit. da H. U. von Balthasar, Teologia dei tre giorni. Mysterium Paschale, Brescia 19902 (tit. orig. Theologie der drei Tage, Zürich 1969), 152.
2 H. U. von Balthasar, Teologia dei tre giorni, cit., 150.
3 L.c.
4 Ibid., 154-155.
5 Ibid., 154.
6 L.c.
7 J. Ratzinger, Intervento al simposio su Evoluzionismo e cristianesimo ospitato dalla Congregazione per la Dottrina della Fede, cit. da F. Brancato, Creazione ed evoluzione. La grammatica di un dialogo possibile, Troina 2009 (Incroci diretta da P. A. Ruggiero 1), 193.
8 H. U. von Balthasar, Escatologia nel nostro tempo. Le cose ultime dell’uomo e il cristianesimo, Brescia 2017 (tit. orig. Eschatologie in unserer Zeit. Die letzten Dinge des Menschen und das Christentum, Freiburg 20102), 53.
9 Ibid., 54.
10 Ibid., 55.
11 Id., Il tutto nel frammento. Aspetti di teologia della storia, Milano 20173 (Opere di H. U. von Balthasar vol. XXVII; tit. orig. Das Ganze im Fragment. Aspekte der Geschichtstheologie, Einsiedeln 1963), 247.
12 Ibid., 248.
13 Ibid., 251.

 

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