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«La gioia al di là delle mura del mondo» Le realtà ultime nel Legendarium di J. R. R. Tolkien

Estratto dalla tesi di Baccellierato di Gabriele Conti.

«La gioia al di là delle mura del mondo»

Le realtà ultime nel Legendarium di J. R. R. Tolkien

«Il Signore degli Anelli è un’opera fondamentalmente religiosa e cattolica» (Tolkien, Lettera n. 142). Con queste parole John Ronald Reuel Tolkien definisce la più famosa delle sue opere, che nel mondo ha conosciuto un successo tale da essere tradotta in sedici lingue e da vendere più di venti milioni di copie, divenendo il “libro del secolo”. Il Signore degli Anelli fa parte, insieme a Lo Hobbit e al Silmarillion, del vasto Legendarium tolkieniano. «La parola “Legendarium” – scrive Claudio Testi – era anticamente usata per indicare collezioni di leggende e vite di santi; Tolkien riprende tale termine e lo applica alla sua monumentale raccolta di scritti sulla Terra di Mezzo, la quale si compone, (considerando anche The History of Middle-Earth), di oltre 8.100 pagine per oltre due milioni di parole».

Tolkien era un «valente filologo e un fervente cattolico» (A. Monda). Nutriva una sincera stima e un profondo amore per la cultura tedesca e la mitologia nordica; amore sorto dalla lettura di numerose mitologie nordiche come il Kalevala finnico, il Beowulf anglosassone, l’epica islandese e i romanzi cavallereschi del ciclo arturiano. Era un grande studioso di lingua inglese e anglosassone medievale, ma anche di lingue medievali del Nord Europa come il norreno, il finnico, il gotico, l’inglese Antico e Medio. Il suo “vizio segreto”, come lui stesso lo definì, era inventare nuovi alfabeti e nuove lingue, con tanto di «cornice di storie di popoli, etnie, genealogie che dessero vita e animassero questi nuovi linguaggi che la sua scatenata fantasia sfornava» (A. Monda).

Tolkien era anche «particolarmente devoto a Maria, considerava sua madre una martire della fede, consigliava di comunicarsi tutti i giorni, credeva all’Angelo Custode, considerava i liberi costumi sessuali di allora un segno del dilagare della concupiscenza, vedeva nel matrimonio anche una mortificazione degli istinti sessuali, era contrario alle leggi sul divorzio e andava in pellegrinaggio in luoghi di culto come Lourdes» (A. C. Testi). Formato presso l’Oratorio di Birmingham, fondato da John Henry Newmann, Tolkien era un uomo di grande fede; fede trasmessa con amore paterno ai suoi figli e traboccante nelle pagine delle sue opere.

Scrive Johann Baptist Metz che il logos della teologia viene posto «nell’impaccio in cui viene a trovarsi la ragione quando s’interroga, ad esempio, sull’inizio e sulla fine, sulla determinazione del nuovo, del non ancora accaduto […]. Si può parlare di “inizio” e “fine” soltanto narrandoli o presupponendo una narrazione»; e Tolkien ha saputo mostrare, per mezzo del suo Legendarium, come il logos della teologia “nasconda” una natura narrativa. Tolkien è, infatti, «colui che raccontò la Grazia» (M. Toninelli); l’autore del Legendarium non ha stilato alcun trattato di dogmatica o di filosofia, né si è intrattenuto in lunghe e articolate prediche sui temi centrali della religione. Ha invece raccontato l’evento dell’Evangelium per mezzo della fiaba e della narrazione fantastica; scrive Tolkien stesso che «il vangelo non ha abrogato le leggende; le ha santificate», in quanto la Grazia è giunta a noi per mezzo di un racconto, il Kerygma annunciato dagli apostoli a tutte le genti, e giunto a noi attraverso generazioni e generazioni di credenti. L’opera di Tolkien è una delle tante opere di letteratura che, soprattutto nel secolo scorso, hanno dato un notevole contributo non solo alla riflessione teologica, in particolare all’escatologia, ma anche alla vita di fede di ogni credente in Cristo.

«Le “cose ultime” – scrive Franco Manni – sono la Morte (termine della vita), il Giudizio (sul significato della vita), l’Inferno (il non averne avuto) e il Paradiso (l’averne avuto), e riguardano sempre e solo il futuro». I cosiddetti classici Novissimi, tuttavia, non esauriscono l’intera realtà delle “cose ultime”; nell’escatologia cristiana, infatti, rientrano anche il mistero della Risurrezione, il Purgatorio, l’apocalittica, la Parusia. In una battuta: l’escatologia cristiana tratta del Cristo veniente a portare il definitivo compimento alla storia della salvezza e alla creazione intera. Vi è dunque sempre il pericolo di una eccessiva “cosificazione” dell’Escatologia, così come di considerare le “cose ultime” solo come una realtà collocata in un lontano futuro, che rischia di non riguardare più il tempo presente. Spesso, infatti, ricorda Francesco Brancato, si considera la risurrezione come «il semplice riscatto della negatività della morte, il giudizio il riequilibrio degli effetti della colpa, il paradiso ciò che svuota l’inferno, ecc»; riflettere sui Novissimi, invece «vuol dire fissare lo sguardo sull’aldilà non per dimenticare le brutture del presente, le sue contraddizioni, il peccato e il male, ma per vivere il presente, il penultimo, alla luce dell’ultimo e del definitivo; significa cogliere la realtà nel suo significato più profondo, in ciò che dovrebbe essere, in ciò che sarà in futuro per opera di Dio, e anche per l’impegno dell’uomo. Pensare seriamente i novissimi significa riscattare le realtà escatologiche dal clima di sospetto in cui per troppo tempo sono state mantenute».

Alla luce di questo appare chiaro che non è solo l’uomo a trovarsi in difficoltà di fronte al suo futuro, al senso della morte, a concepire una “realtà” di beatitudine e una “realtà” di condanna e tormento; anche la teologia sperimenta la stessa difficoltà e lo stesso imbarazzo nel poter “dire le cose ultime”, tanto che i Novissimi sono stati faticosamente rimessi in luce dalla riflessione teologica solo negli ultimi decenni. Il merito di questa “riscoperta” è dovuto anche e soprattutto al contributo che la teologia ha ricevuto da altre discipline; cogliendo «i segni dei tempi» (Mt 16, 4), la riflessione teologica si è lasciata aiutare dall’apporto di discipline come la scienza, la filosofia, l’arte, la musica, la letteratura, nel poter “balbettare” qualche parola sulle realtà ultime riguardanti l’uomo e la storia del mondo. E l’opera di Tolkien è una delle tante opere, nello specifico di letteratura, che hanno dato un notevole contributo alla riflessione teologica, in particolare all’escatologia.

Tra i tanti temi riscontrabili nelle storie della Terra di Mezzo come «perdono, amore, misericordia, pietà, ardore cavalleresco, riconoscimento dei propri limiti, apertura nei confronti del diverso, discernimento interiore, libero arbitrio, forza di volontà, abbandono fiducioso a un disegno più grande, accoglienza della propria missione, rispetto dell’altro, ricerca della vera immortalità, lotta contro le forze del male dentro e fuori di sé, gioia di vivere, umiltà, sorriso, amicizia» (I. Sassanelli), il tema centrale è senza dubbio, come scrive Tolkien stesso, «la Morte e l’Immortalità» (Tolkien, Lettera n. 186).

Tolkien scrive che la morte è avvertita dall’uomo quale «Nemico» della propria esistenza: «Ma certamente la Morte non è un Nemico! […] La confusione è opera del Nemico, ed una delle ragioni principali del disastro degli uomini» (Tolkien, Lettera n. 208). L’uomo, infatti, quando si trova di fronte alla paura di una morte «irreparabile…irrimediabile…irreversibile…irrevocabile» (Z. Bauman), prova quello che Tolkien definisce «il desiderio più antico e profondo, quello della Grande Evasione, l’evasione dalla Morte» (Tolkien, Sulle Fiabe). Eppure, sfuggire alla morte o eliminarla dalla propria esistenza non coincide con un’ipotetica beatitudine sperata. Per Tolkien, infatti, l’uomo è costantemente esposto «all’orribile pericolo di confondere la vera “immortalità” con la longevità seriale illimitata. Essere liberi dal Tempo e restare attaccati al Tempo» (Tolkien, Lettera n. 208). Eliminare la morte non significa per l’uomo continuare a vivere ma essere “costretto” a vivere, divenendo un muto spettatore dello scorrere inesorabile del tempo che tutto consuma. Il Legendarium, dunque, non tratta della ricerca del potere, come si potrebbe erroneamente pensare; esso «è solo la forza che mette in moto gli eventi, ed è relativamente poco importante […]. Riguarda principalmente la Morte, e l’Immortalità; e le “scappatoie”: la longevità seriale e la memoria tesaurizzante» (Tolkien, Lettera n. 211). Queste “scappatoie” dalla Morte sono ricercate in particolare da due popoli della Terra di Mezzo: gli Elfi, e gli Uomini, che altro non sono che «aspetti differenti dell’Umano, e rappresentano il problema della Morte come visto da una persona finita ma volenterosa e autocosciente» (Tolkien, Lettera n. 181). Gli Elfi sono immortali, “intrappolati” entro i confini di Arda e invidiosi per il destino mortale degli altri popoli; gli Uomini sono, invece, mortali, profondamente angosciati dalla paura della morte e invidiosi della vita senza fine degli Elfi. Il tema centrale dell’opera, dunque, riguarda «qualcosa di molto più eterno e difficile» della semplice ricerca del potere; essa tratta di «Morte e Immortalità: il mistero dell’amore per il mondo nei cuori di una razza “destinata” a lasciarlo e apparentemente a perderlo; l’angoscia nei cuori di una razza “destinata” a non lasciarlo finché tutta la sua storia suscitata dal male non si sia completata» (Tolkien, Lettera n. 186). Quella che Tolkien compie è «una vera e propria meditatio mortis per l’uomo contemporaneo» (A. C. Testi), esposta attraverso i popoli degli Elfi e degli Uomini, il loro rapporto con la morte e le relative conseguenze: l’invidia e le “scappatoie”.

Gli immortali Elfi, infatti, invidiano il destino mortale degli Uomini, e considerano la loro Morte come il Dono di Dio. L’illimitata lunga vita degli Elfi li porta a vivere di “scappatoie” quali i ricordi e la memoria; vivono di pigra malinconia; cercano di fermare il tempo e di “imbalsamare” la natura, poiché non riescono a tollerare l’inesorabile scorrere del tempo che consuma tutta una creazione intaccata dal male. Gli Uomini, di contro, non considerano la Morte come un Dono, ma come un castigo di Dio. Essi dunque invidiano l’immortale lunga vita degli Elfi a tal punto da muovere “guerra” contro le “Potenze della Terra di Mezzo”: i Valar. Nel famoso racconto della Caduta di Númenor, Tolkien racconta della ribellione «orribilmente folle e blasfema» (Tolkien, Lettera n. 131) degli Uomini Númenóreani che, angosciati dal pensiero del loro destino mortale, fanno vela verso il regno Beato di Aman, dimora delle “Potenze angeliche”, con l’intento di impadronirsi di quella terra e della sospirata immortalità. Ma il loro intento si conclude con l’intervento divino di Eru Ilúvatar (Dio) che apre un profondo abisso nel mare in cui precipitano tutte le flotte degli Uomini, compresa l’isola di Númenor. Al tema della Morte si intreccia, dunque, anche il tema del Giudizio: il Giudizio degli Uomini contro Dio e di Dio sugli Uomini; tema ampliato anche dai racconti incompiuti sulla Dagor Dagorath, la Grande Battaglia finale che vede il male sconfitto e il mondo risanato.

Gli Uomini, per sfuggire alla temuta Morte, cercano anche altre “scappatoie”, tra cui quella dell’Anello del Potere di Sauron, attorno al quale ruotano gli eventi de Il Signore degli Anelli. Il Potere più eloquente che l’Anello conferisce al suo portatore è quello di una innaturale lunga vita, come testimoniano Bilbo e Gollum. Ma l’effetto di tale “diabolico talismano” è tutt’altro che benefico, come dimostra il personaggio di Smeagol. Un tempo un Hobbit, Smeagol diviene a causa dell’Anello il mostro Gollum, la cui esistenza diviene un Inferno vissuto come incomunicabilità, estraneazione, lontananza e solitudine rispetto al mondo e a chiunque. La sua mente è devastata, la sua vita è schizofrenica, dilaniata tra Smeagol l’Uomo e Gollum il Mostro, profondamente disumanizzato e tormentato.

Le “scappatoie” alla Morte e all’Immortalità conducono Elfi e Uomini a vivere rispettivamente dei falsi “Paradisi imbalsamati” e delle “esistenze profondamente infernali”. Il Vero Paradiso e la Vera Immortalità, per Tolkien, coincidono paradossalmente con la morte stessa (Cfr. Tolkien, Lettera n. 156), il “lieto transito” da questo mondo verso la pienezza dell’esistenza e verso l’incontro beatifico con Dio, come dimostrano le straordinarie storie d’amore di Beren e Lúthien, Aragorn e Arwen, rispettivamente un Uomo mortale e un Elfa immortale. Per amore del proprio amato, Lúthien e Arwen rinunciano alla loro natura immortale e accolgono una esistenza mortale, vivendo il dramma di avere fede in un futuro senza garanzie (Cfr. Tolkien, Lettera n. 131); per amore della propria amata, Beren e Aragorn accolgono la morte come parte naturale della vita e come pienezza della propria esistenza, confidando di potersi incontrare nuovamente dopo la morte perché «al di là delle mura del mondo vi è più dei ricordi» (Cfr. Tolkien, Il Signore degli Anelli).

Morte, Giudizio, Paradiso e Inferno, non sono in Tolkien solo “cose ultime”, narrate abbondantemente anche dai paesaggi geografici e dai personaggi della Terra di Mezzo, ma sono un tutt’uno armonico vissuto in chiave antropologica e relazionale dall’Uomo, sempre aperto al proprio destino e al proprio futuro. Dopotutto «l’opera è stata scritta da un uomo» (Tolkien, Lettera n. 203).

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