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GIOVANNI E LA SUA STORIA:
SAGGIO DI CRITICA TESTUALE SULLE DIFFERENZE DEI TESTIMONI PRINCIPALI NELLA TRASMISSIONE DEL QUARTO VANGELO CANONICO

Estratto dalla tesi di Baccellierato di Samuel Grienti

Conosciuta dalle citazioni dei Padri occidentali col titolo latino di pericope adulterae, è ritenuta un testo canonico nella sua integrità e come una delle sezioni più preminenti del Vangelo secondo Giovanni, per l’autorevolezza che ha avuto nella spiritualità cristiana ed ecclesiastica. Ciononostante, questi versetti risultano fra i più suscettibili di interpretazioni e studi come pochi altri in tutto il NT. Una vera e propria desperatio, insomma, a incominciare dall’ambito paleografico e filologico, dal momento che l’intero complesso testuale è manifestamente di scuola lucana. Per quanto riguarda l’ermeneutica esegetica, a parlare della sua natura “oscura” è la stessa storia delle svariate interpretazioni che, nel tempo, si sono sommate, a volte non rendendo giustizia nel palesare questo o quell’interesse interpretativo a scapito dei livelli di lettura originari che proponeva la stessa pericope.

Il titolo di per sé, plasmato sulla figura di una donna dalla dubbia moralità in ambito sessuale, sembra portare in sé un proposito di sfida al lettore. Un tale “restringimento” di campo, ovvero uno zoom diretto che dal titolo va direttamente al cuore della storia, sembra un’esplicita presa di posizione nel voler rimodellare l’intero testo alla personale attenzione di chi legge (1).

Considerando il percorso filologico e ricostruttivo del testo, prima di sostenere una posizione, è opportuno fondarne le basi per un ragionamento che comprenda anche le voci esegetiche. Dal momento che esegesi significa anche, e soprattutto, studiare il vocabolario di un testo, il discorso su Gv 7,53-8,11 può essere presentato come sotto:

«Sebbene gli studiosi di solito utilizzino prove esterne per argomentare contro l’inclusione di Gv 7,53-8,11, può capitare che vengano presentate anche delle argomentazioni di prove interne, per lo più basate sull’inclusione di vocabolario non giovanneo, per supportare queste obiezioni. Tuttavia, contra-riamente alle prove testuali, le argomentazioni sul vocabolario non giovanneo raramente ricevono la necessaria quantità di valutazione.» (2) (tdr.)

Un’analisi esegetica della pericope giovannea, per ciò che tocca il lato prettamente linguistico, come si vede, sembra mostrare incertezze sull’affidarsi o meno a una previa indagine terminologica e lessicale del testo in esame, causa la successiva mancanza di credito che tale indagine riceverebbe da quegli stessi studiosi che l’hanno portata avanti. Il v. 7,53, che narrativamente appartiene al cap. precedente, viene considerato come incipit della pericope proprio a motivo di un lessico palesemente lucano. Infatti, il toponimo ὄρος ηῶν ̓Eλαιῶν, il “monte degli Ulivi”, riporta soltanto ὄρος come termine utilizzato altrove in Gv (seppur una manciata di volte, in 4,20-21 e 6,3.15), mentre la restante specificazione risulta sconosciuta a quest’autore (3). Eppure:

«[...] l’apparizione di questo nome nel Vangelo di Giovanni può essere intenzionale (o, per meglio dire, intenzionalmente unica). Sembra comparire, dunque, soltanto durante la Festa dei Tabernacoli per riferirsi al luogo dove Gesù ha passato la notte, tra due narrazioni differenti (4) (Gv 7,37-38 e 8,12), il che potrebbe essere un suggerimento per dei significati escatologici in merito all’attesa messianica.» (tdr.)

Lemma importante per le tante accezioni che porta, παρεγένεηο (dalla forma παραγίνομαι) vale qui, al. v 8,2, come “venire, arrivare, presentarsi”. Risulta molto usato in Lc, così come nella greca LXX. Così facendo, si potrebbe determinare che probabilmente ci sia stato un prestito linguistico dalla LXX a Lc, e proporlo come evidenza sull’origine lucana della pericope adulterae (5).
Dello stesso v. si potrebbe unire al discorso anche il verbo καθίδω, “sedersi”, estremamente insolito al Gesù giovanneo, che preferisce muoversi o, quantomeno, stare all’impiedi nei momenti in cui viene descritto, specie quelli in cui educa a credere alla propria origine divina.

Tra i riferimenti temporali, il solo Ὄρθρου “all’alba” è presente nella pericope, ma è l’unico ad essere adoperato da Lc (nella veste verbale di ὀρθρίδω, in 24,1; 21,38 e At 5,21) come anche λᾱός “popolo” (che Gv sostituisce nel suo stile col più generico ὄχλος “folla”) (6).
Al v. 8,3, l’insieme dei soggetti dell’unità testuale più estesa, οἱ γραμμαηεῖς καὶ οἱ Φαριζαῖοι, risuona come estranea alla cerchia usuale dei personaggi del quarto vangelo. Sebbene Gv nomini esplicitamente i “farisei” e anche più volte, l’accostamento con l’altra classe cultuale, οἱ γραμμαηεῖς, sembra più una resa sinottica che giovannea. Fra gli evangelisti, quello che li nomina insieme e più di ogni altro è ancora una volta Lc (5,21.30-6,7-11,53-15,2). A Gv non interessa con- centrarsi sugli antagonisti, tant’è che il suo vangelo è conosciuto proprio per opporre Gesù alla generalità dei “Giudei” (Ἰουδαῖοι) (7), cioè qualunque autorità si opponga al piano di Dio ostacolando la missione del Figlio. O, semplificando ulteriormente, i Giudei restano il simbolo del mondo/carne, la parte della creazio-ne che si oppone a Gesù, simbolo di luce e vita.

Il lemma ἀναμάρηεηος, al v. 8,7, è un hapax nell’intero NT, ma ricorre frequentemente nella LXX in quei testi/codici legali aggruppati attorno alla normativa cultuale, rituale e penale del popolo d’Israele. Viene riportato anche da alcuni apocrifi veterotestamentari. Si potrebbe avanzare la spiegazione che:

«[...] forse l’insolita situazione ha previsto un motivo per cui l’autore usa un termine altrettanto insolito. Questo lemma potrebbe essere il lemma non giovanneo più problematico di tutta la pericope. Tuttavia, poiché è hapax legomenon nel NT, la presenza in questo punto di questa parola non gli procura grandi sostenitori a favore o contro la paternità giovannea.» (8)(tdr.)

Πρεζβύηεροι, (Gv 8,9), non compare nel quarto vangelo se non qui, mentre lo si ritrova nelle ultime due Lettere giovannee (2Gv 1,1 e 3Gv 1,1), come pure in Ap. Ma tale parola è estranea allo stile del quarto vangelo, al contrario di quanto si scopre per i Sinottici, specie per Lc e At (9).
Interessante è anche il ventaglio di verbi derivati dall’unione col prefisso/preposizione semplice καηά- (καηαλαμβάνω, καηεγορέω, καηαγράθω, καηακύπηω, καηαλείπω), dei rafforzativi che dànno l’idea di un “piegamento” verso qualcuno o qualcosa, un rivolgere profondamente l’attenzione. Fra questi, merita una riflessione maggiore καηακρίνω “giudicare, condannare”, ma anche “pronunciare un verdetto, emanare una sentenza”, verbo-modello su cui con buona ammissibilità si è fissata la scelta di tutti gli altri composti di καηά-. Dunque tale verbo resta anche il più forte, in termini di concretizzazione pratica: in effetti, non indica solo il “condannare”, ma una condanna cui deve farsi seguire una sentenza, materiale e reale, che serva da esempio.

Pleonastico risulta il finale interpolato da alcuni copisti, i quali, ingannati nella comprensione d’insieme del testo, inserirono le parole “Va’ in pace” (su un modello di Lc 7,50), come se il solo “va’” di Gesù non bastasse a restituire la piena dignità e libertà alla donna. Tornando allo sviluppo del climax tra Gesù e gli anziani, custodi della Legge, è bene ricordare che:

«[...] La condanna dell’adulterio nel decalogo e nel codice di santità è accompagnata nei testi legislativi dalla sanzione più grave: la pena di morte (Es 20,14; Dt 5,18.22,22; Lv 18,20.20,10). Ma non si specifica il tipo di morte. Solo nei testi allegorici di Ezechiele si precisa che la donna adultera viene lapidata (Ez 16,40.23,47). Nello stesso senso e in un contesto analogo si esprime l’apocrifo del Libro dei Giubilei del secondo secolo a.C. (Jub 30,7-10).» (10) (tdr.)

Dunque, qui si apre una prospettiva finora non formulata. Intanto, è chiaro ormai come il redattore lucano di Gv sia interessato a presentare un testo che, nel nome del tema più caro a Lc, la misericordia di Dio, ritragga o meno l’applicazione di una pena capitale, facendo trionfare nel finale il “giudizio” di Gesù. Seppur il peccato in questione possa essere verosimile, non si capisce tuttavia come mai un autore/redattore, di probabile origine greco-giudaica, non si sia attenuto a descrivere fedelmente quello che le sue leggi nazionali prescrivevano in casi del genere. Ai fini della veridicità storica della pericope e della sua trasmissione, nonché appartenenza a Lc, tale dato non può essere trascurato. Perché mettere in bocca ai personaggi degli anziani, simbolo dell’autorità, il pretesto della lapidazione, che come si è visto non è neppure specificata nella Legge citata da Dt e Lv, se non nei Profeti (per altro, questi ultimi, testi puramente allegorico-descrittivi e non prescrittivi)? Per il solo intento di far emergere Gesù e la sua conoscenza divina, ma pur sempre reale e giusta, della Legge, che rimane in ogni caso un ausilio all’uomo, e non condizione assoluta, effettiva e unidire- zionale per trovarsi nelle grazie divine. Il quadro che si descrive qui è uno di quelli in cui il lato peggiore dell’umanità vuole sovrastare anche il giudizio divino, eleggendosi a unico giudice, anche al costo di falsificare manifestamente la verità delle leggi che gli stessi uomini si sono dati. Probabilmente, il discorso sul riconoscimento della divinità di Gesù quale Figlio di Dio, nella mente del redattore lucano che ha inserito la pericope in un vangelo talmente sui generis come Gv, è passato anche da qui. Quale inserto letterario migliore se non uno in cui si manifesta la divinità di Gesù, nella cornice della sua onniscienza e magnanimità? In questo senso, forse, si è cercato di avallare la figura di Gesù all’interno del quarto vangelo come uno dei tanti momenti di pedagogia divina in cui Egli, come nel resto di Gv e con modalità pressoché similari, si presenta come l’unica Legge, l’unica verità e via, cui devono tendere tutti gli uomini.

Altro dato che potrebbe confermare una fusione, almeno tematica, con Gv, è proprio l’inserimento dell’autorità religiosa che vorrebbe concretizzare il proprio potere esecutivo. I “Giudei” di Gv sono coloro a causa dei quali Gesù, alla fine di ogni vangelo, andrà comunque incontro al momento della Passione, il momento decisivo in cui egli manifesterà la sua gloria, passaggio che non può realizzare senza prima passare dall’ultimo confronto con le autorità politiche e religiose. La gloria della Passione e della morte in croce per mano dell’autorità umana rimangono, per Gv, il momento più alto della narrazione evangelica.

In termini testuali, risulta ovvio come il redattore lucano, conoscendo già il quarto vangelo, si sia trovato in difficoltà col linguaggio e lo stile giovannei, così spogli eppure così enigmatici da comprendere sin dai primi secoli. Siffatta situazione lo ha indirizzato a mantenere il suo stile, palesemente lucano, per tutta la pericope, senza neanche chiedersi se adattarsi al resto del vangelo o meno. A questo punto del lavoro occorre, infine, articolare le ipotesi più importanti che contribuiscono a chiarire le motivazioni redazionali sulla collocazione della pericope in Gv e quelle che la vogliono proprio in quel punto particolare del testo evangelico. Con Renato Fabris e il suo Commentario (11) sul quarto vangelo, possiamo porre la questione su almeno un paio di punti essenziali, ciascuno dei quali concernenti una singola speculazione.

Una prima congettura farebbe capo a un’analisi testuale più approfondita, la cui plausibilità sui lemmi dichiarati giovannei o meno vorrebbe che buona parte di essi sia effettivamente imparentata col greco del resto di Gv (come il plurale presente ἄγουζιν, che, oltre in Gv 8,3, è nei capp. 9,13 e 18,28 dello stesso vangelo).

Un’altra ipotesi vede un’affinità contestuale e narrativa con le intenzioni più propriamente logistiche, quasi “a incastro”, del redattore lucano. Il fatto che la pericope interrompa bruscamente, almeno a uno primo sguardo, la narrazione in corso al v. 7,52, è confutato da alcuni elementi convincenti che, reperibili nei codici minuscoli e maiuscoli dove la pericope è riportata, rendono tale collocazione giustificata. Il contesto generale è quello che vede Gesù trovarsi ‒ sia prima che dopo l’intermezzo della pericope ‒ dagli spazi del tempio gerosolimitano al centro di una “sfida” con le autorità giudaiche su una tematica forense di carattere giudiziale.

1 Cfr. G. R. O’DAY, John 7:53-8:11: A Study in Misreading, in Journal of Biblical Literature 111 (1992) 4, 631.
2 J. D. PUNCH, An analysis of ‘non-Johannine’ vocabulary in John 7:53–8:11, Part 1, in In die Skriflig/In Luce Verbi 47(1), 1.
3 J. D. PUNCH, An analysis of ‘non-Johannine’ vocabulary in John 7:53–8:11, Part 1, cit., 2.
4 Ma comunque consecutive nel dispiego della narrazione evangelica (ndr.).
5 Cfr. l.c.
6 M.É. BOISMARD-A. LAMOUILLE, Synopse des quatre évangiles. III. L’évangile de Jean, cit. da R. FABRIS, Giovanni, 19912, 376.
7 J. D. PUNCH, An analysis of ‘non-Johannine’ vocabulary in John 7:53–8:11, Part 1, cit., 5.
8 J. D. PUNCH, An analysis of ‘non-Johannine’ vocabulary in John 7:53–8:11, Part 2, 3.
9 Cfr. l.c.
10 R. FABRIS, Giovanni, 19912, cit., 377.
11 Cfr. R. FABRIS, Giovanni, 19912, cit., 371-373.

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