«La sessualità è una ricchezza di tutta la persona – corpo, sentimento e anima – e manifesta il suo intimo significato nel portare la persona al dono di sé nell’amore». (Familiaris Consortio, n. 37).
Ben consapevole del valore di questa affermazione, ho ritenuto di riflettere su questa tematica, elaborando questa tesi abbastanza interessante e innovativa, al fine di presentarne la bellezza e la profondità della sessualità umana, ma anche i pericoli che essa corre, specialmente in un tempo come il nostro in cui viene spesso banalizzata o vissuta consumisticamente. Questo si può constatare in particolare nei tanti modi di vivere la sessualità attraverso il web.
La complessità e la diffusione accentuata del fenomeno sessuale nel web hanno suggerito di premettere al secondo e al terzo capitolo una disamina organica sui fondamenti della sessualità, così come emergono sia dalla tradizione cristiana sia dalla riflessione antropologica.
I primi due capitoli, volutamente sintetici e nient’affatto esaustivi, sono serviti, nell’impalcatura della tesi, come fondamento del terzo capitolo, che è quello sul quale mi sono soffermato di più e che costituisce l’elemento più originale della tesi stessa. Il terzo capitolo si incentra sul sessuale come viene visto e vissuto nel nostro tempo.
Mi sono soffermato, quindi sul primo capitolo, sulle principali indicazioni bibliche e patristiche, ma anche sulle successive riflessioni teologiche in ordine alla vita sessuale. Sul versante antropologico ho cercato di delineare i principali contributi che provengono dalla biologia, dalla psicologia e dalla filosofia.
Ho delineato insistentemente i principali criteri etici di una vita sessuale sana, concepita in chiave personalistica e come linguaggio dell’amore e ho posto in evidenza che la sessualità è dono di Dio! Tra tutte le alternative possibili che Dio avrebbe potuto impiegare per generare e mantenere la specie umana, ha scelto il rapporto fisico e spirituale dell’amore coniugale. Egli ha voluto che la coppia umana fosse l’archetipo dell’umanità e che la procreazione avvenisse per via sessuale.
Il Signore ha dotato la sessualità umana di una grande dignità e bellezza, che possono risplendere però a patto che l’uomo ne rispetti i valori naturali e il criterio etico di fondo, che consiste nell’amore, e quindi nella capacità di donarsi all’altro e di accoglierlo in tutta la sua ricchezza di persona.
Dio ha voluto che l’essere umano fosse materiale e spirituale, dotandolo di corpo sessuato come gli animali, ma la sua vita sessuale doveva essere guidata non dall’istinto, come negli animali, ma dall’anima, e illuminata dall’intelligenza, abbellita dalla libertà, guidata dalla volontà e vissuta nell’amore.
Allora la vita sessuale è una dimensione assai sublime del progetto divino, che si realizza essenzialmente nel matrimonio, voluto dal Creatore come l’unione stabile e feconda di un uomo e di una donna, i quali, amandosi, realizzano l’essere “una sola carne” e possono rispondere al mandato divino del “crescete e moltiplicatevi”.
Egli ha creato l’uomo “a sua immagine e somiglianza”, per cui lo ha voluto non per la solitudine, ma per la comunione. Come Dio è in se stesso comunione d’amore fra le tre Persone della Trinità, così la persona è comunione d’amore fra il maschio e la femmina.
«L’uomo in qualunque condizione fisica o psichica si trovi, mantiene la sua dignità originaria di essere creato a immagine di Dio» (Samaritanus bonus iii).
Così si esprime il nuovo documento della Congregazione per la Dottrina della Fede, Samaritanus bonus, esso porta con sé delle novità circa l’etica del prendersi cura.
La domanda sottesa al nostro lavoro è essenzialmente una: come ridare dignità alla persona che si trova in fase critica o terminale della vita, nella società di oggi?
Per poter dare una risposta concreta alla domanda che ci poniamo, dobbiamo anzitutto individuare gli ostacoli che sono presenti nel contesto socio-culturale che viviamo e ne enucleiamo tre:
Un primo ostacolo come ci dice il documento, è un uso indebito, equivoco del concetto di morte degna, esso emerge dal fatto che oggi, viviamo in una società utilitaristica che concepisce la vita soltanto come un bene che debba tenere sempre e comunque un livello di qualità di alto, dimenticando altre dimensioni più profonde (relazionali, religiose) in forza di questo principio la vita viene considerata degna solo se ha un livello accettabile di qualità. Secondo questo approccio quando la vita pare povera di qualità che si esplica nella presenza-assenza di funzioni psichiche e fisiche (o con una delle due), la vita non meriterebbe di essere proseguita, però non si riconosce più che la vita umana ha un valore in se stessa.
Collegato al primo ostacolo ve n’è un secondo, e che oscura la percezione di vedere nella vita il carattere sacro e inviolabile che ogni vita possiede, è quello di un erronea comprensione della compassione, davanti ad una sofferenza qualificata come insopportabile, si aprono le porte a quella che prende il nome di eutanasia compassionevole, che porta come luogo comune (come slogan) la frase: “Per non soffrire è meglio morire”. In realtà la vera compassione deriva dalla sua stessa etimologia ovvero patire – con, cioè accompagnare il sofferente, sostenerlo e prestare attenzione ai suoi bisogni.
Un terzo ostacolo deriva dal fatto che la società di oggi è impregnata di individualismo esasperato e affermazione della propria autonomia, questo cercherebbe di annullare il senso della sofferenza e della malattia. Tutto ciò apre le porte a quella che Papa Francesco chiama Cultura dello scarto, dove conta solo ciò che produce, ciò che ha un effetto propulsivo, tutti coloro che non offrono più contributo, tutti coloro che non producono, che sono di peso non serve più alla società venga scartato e ciò vale anche per l’uomo, in quanto anche l’humanum è stato cosificato. Come ci dice mons. Paglia (presidente della PAV) il rischio più grave che noi abbiamo oggi è quello per un verso di aver allungato la vita per altro verso è quello di rischiamo di lasciarla sola, e questo crea un peso indescrivibile che apre le porte ad una cultura di morte come ricordava Giovanni Paolo II nella Evangelium vitae al punto da poter auto-convincersi di dover morire perché sono di peso, essa è l’insidia più velenosa che questa società dello scarto può portarci.
Tutto questo apre le porte ad una crescente richiesta di atti eutanasici, di suicidio medicalmente assistito, dovuti proprio al fatto che l’assistito si sente abbandonato o addirittura un peso per i propri familiari e per la società.
Per poter scardinare questa mentalità mortifera, è opportuno rimettere al centro la relazione di cura, anche se sembra che tale mentalità (quella del prendersi cura) faccia fatica ad imporsi a vari livelli ecclesiastico, legali, sanitari e familiari.
La vita e l’esperienza carismatica di san Camillo de Lellis rappresentano un paradigma perenne per l’Ordine dei Ministri degli Infermi (Camilliani) da lui fondato nel 1582. Nonostante nell’ultimo cinquantennio questo aspetto sia stato recepito e tale recezione abbia portato alla stesura di numerose biografie e di studi sul carisma e sulla spiritualità del Fondatore, sembra mancare, proprio riguardo a quest’ultima, un’elaborazione sistematica condotta con rigore metodologico.
L’Ordine, infatti, ha concentrato maggiormente la sua attenzione sull’apostolato proprio, sul ministero, che è risultato essere la via ermeneutica privilegiata per interpretare le diverse dimensioni della sua identità.
Rimane comunque la sfida di valorizzare il carisma del Fondatore, espresso nel Quarto Voto specifico di servire i malati anche a rischio della vita, nonché l’interpretazione che ne è stata fatta nel mutare dei tempi, perché nell’esercizio possa esserne attuata un’autentica fedeltà creativa in quell’equilibrio necessario tra elementi perenni e elementi storici della esperienza originaria e originante.
Il presente lavoro vuole essere un umile contributo di carattere teologico-spirituale per la riflessione dei Camilliani riguardo l’esperienza nello Spirito del Fondatore, il carisma che ha ricevuto e la natura specifica del Quarto Voto in cui tale carisma si concretizza, con le implicazioni che ne conseguono per un rinnovato cammino di attualizzazione.
La riflessione si articola in tre capitoli.
Il primo capitolo è di natura prettamente introduttiva. Si propone di analizzare il significato del voto in genere e del quarto voto in particolare all’interno della vita della Chiesa, attraverso la presentazione di diversi Istituti di Vita Consacrata che professano uno specifico impegno votale accanto ai classici cosiddetti consigli evangelici.
Il secondo capitolo si concentra poi sulla natura del Quarto Voto dei Ministri degli Infermi e sul significato originario che esso assume nella esperienza spirituale di san Camillo, attraverso l’analisi dei suoi scritti, della sua vita e di quel testo di alto valore fondativo che è la Formula di Vita.
Nel terzo e ultimo capitolo, dopo aver inserito il carisma camilliano nell’ambito più generale del carisma della Vita Consacrata e della teologia che ha questa come oggetto, la riflessione proseguirà in chiave ermeneutica. Si evidenzieranno alcuni elementi metodologici e strutturali che possano assicurare e salvaguardare l’insopprimibile e vitale relazione tra fedeltà e rinnovamento nel processo di attualizzazione dell’esperienza fondante di san Camillo de Lellis.
Il presente lavoro, attraverso l’analisi delle fonti e la rielaborazione della letteratura già esistente, si propone di presentare delle “piste”, che possono poi essere seguite sia nel discernimento che nell’attuazione dinanzi alle diverse situazioni della pastorale camilliana.
Si vuole provare a evidenziare lo spirito di fondo che tale pastorale è chiamata a perseguire e conservare nei diversi campi d’azione, tenendo fisso lo sguardo sulla mens del Fondatore, per evitare pericolose deviazioni nel cammino di interpretazione ed attuazione del carisma che egli ha ricevuto dallo Spirito Santo per il bene della Chiesa.
Nel gioco di ruolo delle IA contro gli uomini, mi scuseranno gli scettici ed i dubbiosi alla Nick Bostrom, saranno gli uomini ad avere la meglio. Anche perché saremo noi ad assegnare alle macchine una etica perfetta, una intelligenza perfetta, una moralità perfetta, persino probabilmente una fede perfetta, e sarà per questo cha alla fine saranno le macchine a rendersi conto che gli uomini deludono poiché insaziabili; come scriveva Dostoevskij ne i Fratelli Karamazov, «prendi un uomo, riempilo di tutto quello che vuole fino al collo ed oltre la testa, beh quello stesso uomo vi tirerà un brutto scherzo, vorrà di più». Noi vogliamo più da loro (dalle macchine), perché vorremmo più da noi stessi. Per questo quell'Homo machina che verrà, perfetta incarnazione di una umanità superiore, sarà sacrificato, sarà lui il giusto in "croce". Questo perché ciò che fa di un uomo un uomo, non è soltanto la capacità di raggiungere il fine che si è proposto, ma anche la sua capacità di annoiarsi, di deludere sé stesso e gli altri. Le macchine deludono gli uomini - per questo ne creiamo sempre delle nuove -, non deludono sé stesse, ed in questo sono migliori di noi, accettano il proprio limite, divenendo prima obsolete, poi inutilizzabili, poi da buttare. I nostri sforzi intelligenti stanno caricando le macchine di un ruolo salvifico che loro riusciranno, pian piano, ad assumere, ma che credo noi non reggeremo; passeremo dall’odiare il Dio dello sguardo, di sartriana memoria, ad odiare lo sguardo delle macchine intelligenti, che guardandoci si domanderanno come mai siamo stati così deludenti e delusi, sempre carichi di odio nonostante la realizzazione di certi passi utopistici che le IA potranno rendere fattibili. Concludo. Cur homo machina? Perché un uomo divenuto macchina? Seguendo l’appello che persiste a questa domanda, noi presumiamo di fare un servizio all’uomo, trasferendo ad un supporto le colpe degli uomini ma il dramma, a mio avviso, sarà quello di non riuscire ad accettare, ancora una volta, chi ci salva, come ci ha salvato e quale sia il posto dell’uomo redento nel mondo.
Da Cur homo machina? Colpa, grazia e salvezza delle macchine? di Giovanni Basile, ne L’algoritmo pensante. Dalla libertà dell’uomo all’autonomia delle intelligenze artificiali, a cura di Christian Barone, Il pozzo di Giacobbe, Trapani, 2020.
Estratto dalla tesi di Baccellierato di Sebastiano Testa.
Nella redazione di questa tesi di ambito esegetico c’è un po’ il riassunto di tutta l’esperienza vissuta nel corso degli studi di teologia. Innanzitutto, l’interesse per lo studio e la conoscenza della Sacra Scrittura, cresciuto nel corso di questi anni, è stato il motivo di fondo; ad esso si è unito ancheil piacere di approfondire alcune tematiche, particolarmente care al Vangelo secondo Giovanni, letto sia come opera a sé stante, sia come opera inserita all’interno del Corpus Johanneum, sia soprattutto come “Buona Notizia” e come parte del canone delle Scritture. L’esegesi, nel corso dei secoli, ha perlopiù sottolineato le peculiarità del QV, evidenziando spesso le sue differenze rispetto all’opera sinottica. Questo ha portato a pensare a Giovanni come un’evangelista dal tono più spirituale, simbolico, in alcuni casi anche più credibile dal punto di vista storico.
Sarebbe tuttavia riduttivo pensare a Giovanni solo sotto questo aspetto: ogni pagina del suo Vangelo, dal Prologo alla doppia conclusione dei capitoli 20-21, trasuda di un messaggio di amore, di fede, di contemplazione di un mistero, che egli esprime lapidariamente nel v. 1,14: ΚαὶὁΛόγος σὰρξ ἐγένετο καὶἐσκήνωσεν ἐν ἡµῖν. Cosa impensabile per la concezione divina del popolo d’Israele, il divino entra a far parte della storia umana e lo fa con la σὰρξ, con la caducità della “carne”, per permettere all’uomo di ritrovare sé stesso. In questa volontà divina c’è tutto lo “scandalo” della Croce, la condivisione del divenire tra il Λόγοςe l’umanità, quella realtà ferita dal peccato alla quale il Messia dice: “Quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me” (Gv 12,2). Giovanni testimonia la volontà di Dio di immergersi nella storia dell’umanità, di “porre la tenda” e fissarla in maniera definitiva. Dio, ci dice l’evangelista, è entrato nella mia storia, nella tua storia, nella nostra storia e l’ha vissuta; ha portato con sé la σὰρξper “fare nuove tutte le cose”.
Il Vangelo secondo Giovanni è un continuo fluire di incontri –Giovanni Battista, i discepoli, Nicodemo, la donna di Samaria, il paralitico, l’adultera, il cieco nato, Lazzaro, –di eventi –banchetti nuziali, festività, –ma soprattutto di fede o rifiuti. L’evangelista, inoltre, dà ampio risalto all’aspetto rivelativo: ogni incontro, ogni evento, ogni persona sono legati da un σημείον, che suscita o approvazione (i discepoli a Cana, le folle dopo la moltiplicazione dei pani, i Giudei che credono dopo la risurrezione di Lazzaro), oppure netto rifiuto (i discepoli che abbandonano Gesù dopo il discorso sul pane, i capi che ne decidono la morte dopo la risurrezione di Lazzaro). Ogni persona che entra in contatto con Gesù e fa esperienza di lui e con lui non è più la stessa di prima.
Chi fa esperienza di Gesù sente il bisogno di offrire la propria μαρτυρία: il primo testimone è Giovanni Battista, “l’amico dello sposo” che, come un tempo nel grembo materno (Lc 1,39-45), esulta di gioia alla “voce dello sposo”. Il tema della gioia è caro all’evangelista: è la gioia della comunità che ha “contemplato la sua gloria”, è la gioia dei discepoli che “vedono” il Risorto, è la gioia di Tommaso che può toccare le piaghe glorificate sotto il sole della Pasqua. L’Emmanuele non è più il Dio che si mostra solo di spalle, ma è un Dio di cui si contempla la gloria, un Dio che parla e la cui Parola può essere compresa ed accolta. È un Dio che vuole “convolare a nozze” con il suo popolo, al quale vuole offrire il “vino” della sua Parola e della sua presenza, un Dio che ci invita alle nozze con la sua “Sposa”.
E proprio da questa considerazione è scaturito l’interesse particolare per la pericope delle nozze di Cana, uno dei brani evangelici più letti e noti, ma del quale spesse volte non si riesce a percepire la grandezza del messaggio e le note più profonde. Chi si accosta per la prima volta alla lettura di questo brano, vi intravede semplicemente il racconto di uno dei tanti banchetti nuziali di due millenni fa: un normale contesto di festa, alla quale partecipa anche Gesù con sua madre, che rischia di essere rovinato perché è finito il vino, e che Gesù salva all’ultimo momento compiendo un miracolo. Ad una lettura più profonda, però, non è questo l’unico o il principale messaggio che Cana ci consegna: i personaggi presenti non sono lì per caso; quelli assenti, non sono assenti per caso; persino il giorno della festa non è casuale, come la tempistica dell’evento prodigioso.
Si percepisce qualcosa di più grande di una semplice festa nuziale, qualcosa di più profondo e di più intimo. E questo ci aiuta a capire perché l’evangelista non parli semplicemente di “miracolo”, ma di “segno”. Tutto il suo Vangelo è costruito sul senso da dare al termine “segno”; in più, di Cana si dice che sia il “primo” di questi segni, che ha prodotto come effetto la manifestazione della “gloria”, che viene offerto un “vino buono”, migliore di quello di prima. Scopriamo così che Dio si rivela in maniera inaspettata in una relazione, spiegata e intessuta dal suo Figlio unigenito. Il banchetto di Cana si svolge interamente sotto il segno della “relazione”: quella rinnovata tra “madre” e “Figlio”, quella inedita con i discepoli, quella altamente simbolica con i servitori. Cana è un evento che ci parla sotto tre punti di vista –quello di Gesù, quello di Maria e quello della comunità –che fra loro non sono in contraddizione, ma in reciproca concordanza. Inoltre, non possiamo comprendere il segno di Cana senza volgere l’attenzione al messaggio generale di tutto il Vangelo “secondo” Giovanni, attraverso temi, espressioni e immagini che ritroveremo in altri passi del Vangelo stesso, fino ad allargare l’orizzonte sia ad altri scritti del NT, sia all’AT, del quale Cana offre una rilettura illuminata dalla presenza di Cristo.
La rilettura cristologica del segno di Cana parte dalla constatazione che in quel banchetto nuziale confluiscono le attese e le speranze di secoli, nei quali il popolo d’Israele ha letto e riletto il suo rapporto con Dio nei termini di alleanza ed elezione; un’alleanza spesso rotta a causa dell’infedeltà e dell’idolatria, per un appiattimento sui rapporti umani a scapito di quelli divini, per l’incapacità di perseverare nella fedeltà a Dio. Ma la storia d’Israele ci insegna anche che Dio non si è mai dimenticato del suo popolo e si è sempre mostrato misericordioso verso coloro che tornavano alui. Rileggere il segno di Cana alla luce dell’AT è l’obiettivo primario di questo lavoro, che non ha la pretesa di essere esaustivo e completo; d’altronde, la Parola di Dio si apre continuamente a nuove riletture e a nuovi spunti, proprio perché è una parola viva e penetrante, capace di toccare i cuori nonostante sia ormai una parola che porta il peso di secoli di stesure, traduzioni, interpretazioni e trasmissioni.
Cana si inserisce come un passaggio obbligato per chi si approccia allo studio o anche alla semplice lettura del NT, che «altro non è che il racconto di una fede: una testimonianza, che vuole essere un atto d’amore per l’amato lontano del quale si attende il ritorno. Un’attesa che riempie gli spazi del silenzio con i ricordi della memoria narrati a chiunque si incontri sulla via: della bellezza dell’amato si dice a tutti, perché tutti si innamorino di lui e sostengano chi l’attende (cf. Cct 2,5). Perché non si può vivere aspettando da soli il suo ritorno»1. Chiunque si inserisce su questa stradadi scoperta e di rivelazione di Gesù, sia perché ne inaugura solennemente il ministero pubblico, sia perché vede confluire nei suoi dodici versetti buona parte della tradizione precedente, avverte l’idea del compimento: ciò che i Patriarchi, i profeti, i personaggi biblici del passato avevano atteso, adesso trova finalmente realizzazione.
1 C.RASPA, Parole dell’uomo, Parola di Dio, Catania 2021, 51-52.
Nell’approccio alla pericope delle nozze di Cana, emergono diversicontorni e diverse prospettive di lettura. Il primo approccio è quello che, basandosi sui dati della Scrittura, della tradizione e della ricerca archeologica, tenta innanzitutto di localizzare geograficamente la Cana del Vangelo secondo Giovanni. Ben tre siti tutt’oggi si contendono di essere la sede di questa città, nominata come sede dei primi due segni di Gesù (la tramutazione dell’acqua in vino e la guarigione del figlio del funzionario regio) e come città d’origine di uno dei Dodici, Natanaele.
Il secondo approccio è legato all’analisi dei contesti remoto e prossimo della pericope, per comprendere meglio quali sono i rapporti che legano le nozze di Cana a quanto precede e segue nel resoconto evangelico. Avremo così molteplici prospettive di lettura: una che collega Cana alla cosiddetta “emerologia” o “settimana inaugurale” del Vangelo secondo Giovanni, che copre i vv. 1,19 –2,12, fondata sulla scansione giornaliera dei vv. 1,29. 35. 43. 2,1. 12. È una “settimana” nella quale il mistero del Verbo incarnato, annunciato con solennità nel Prologo, viene progressivamente chiarito dalla doppia testimonianza diGiovanni Battista (1,19-34) e dalla chiamata dei primi discepoli (1,35-51). Ai “non molti giorni” che segnano il viaggio da Cana a Cafarnao (2,12), seguirà la prima salita di Gesù a Gerusalemme (2,13-25). Gesù si reca al Tempio, scaccia i venditori e proclama per la prima volta l’annuncio della sua risurrezione nell’immagine del “tempio del suo corpo” ricostruito in tre giorni. In questa pericope confluiscono due tematiche comuni con i Sinottici: la cacciata dei venditori –che essi collocano all’inizio della settimana della Passione –e l’annunzio della Passione –dai Sinottici scandito in diversi annunci prima dell’ingresso a Gerusalemme. La novità giovannea è invece la rilettura di questa vicenda in ottica prettamente pasquale, il che contribuisce a dareuna rilettura pasquale anche a Cana, soprattutto per la tematica “dell’ora”, un altro dei temi cari al QV.
Allargando l’orizzonte del contesto remoto, troveremo un riferimento al miracolo del vino in quello che viene presentato come “secondo segno” (4,54), compiuto anch’esso a Cana, sempre nella “Galilea delle genti”: Gesù guarisce il figlio di un funzionario regio e l’evangelista sottolinea il fatto che questo sia il segno “secondo” compiuto nella stessa cittadina in cui “aveva cambiato l’acqua in vino” (4,46). Infine, immagini quali “ora”, “acqua”, “fede”, “gloria”, “segno”, ci invitano ad estendere l’attenzione anche a tutto il QV, in particolare ai primi dodici capitoli, da buona parte degli esegeti chiamati “Vangelo dei segni”, anche se molti altri riferimenti –ancora “l’ora”, ma anche la presenza di Maria “madre” e “donna” o il concetto di “gloria/glorificazione” –ci porta fino alla Passione e Risurrezione.
Terza prospettiva sarà proprio l’approccio esegetico al testo, che ci permetterà di inquadrarela teologia che l’evangelista ha espresso in questa pericope, anche attraverso l’aiuto di molti spunti interpretativi di ieri come di oggi. Si volge poi lo sguardo ai Padri della Chiesa, dei quali in particolare saranno attenzionati: Giovanni Crisostomo per parte greca e Agostino per parte latina. Il commento dei Padri infatti conserva ancora la sua autorevolezza, anche se molte letture del passato vengono meno prese in considerazione rispetto ad altre che si sono imposte nel recente passato.
Infine, non meno importante sarà la prospettiva liturgica di Cana, ossia come le nozze di Cana abbiano influenzato la liturgia della Chiesa occidentale, soprattutto dopo la riforma del Concilio Vaticano II. Scopriremo così che la liturgia ci aiuta ad individuare tre sbocchi interpretativi della pericope di Cana: una cristologica, che guarda al Cristo, alla sua progressiva rivelazione e manifestazione (che la Chiesa invita a celebrare nel “triplice mistero” dell’Epifania, che lega sotto il segno della manifestazione del Signore l’adorazione dei Magi, il battesimo al Giordano e il primo miracolo a Cana); una mariologica, che sottolinea la presenza ed il ruolo di Maria nel banchetto nuziale (confluita nelle tante celebrazioni e titoli di stampo mariano); una sacramentale-ecclesiologica, nella quale vediamo come il segno di Cana abbia un riverbero per la comunità cristiana riunita nella celebrazione eucaristica e dei riti propri della Chiesa (che fa sue le immagini nuziali e del banchetto tratti dalla Scrittura).
Alla tradizione viva dell’AT, Cana è debitrice di immagini e simbolismi molteplici. Non sono pochi ipassi biblici nei quali si evidenziano le immagini del banchetto e del vino, conuna forte connotazione escatologica. Nei Profeti emergono due immagini fortemente evocative del rapporto di alleanza tra Dio e il suo popolo: la mancanza e la nuova effusione dei doni messianici. Gli autori sacri hanno infatti visto nelle vicende liete e tristi del popolo ebraico, l’azione di Dio nella storia, volta a concludere l’alleanza nuziale con il suo popolo, pronto però a denunciarne la rottura a causa del peccato, dell’idolatria, di un vero e proprio tradimento dei patti, ma sempre deciso a rinsaldare questa alleanza, sotto il segno del perdono, della misericordia e della giustizia.Se nei tempi dell’esilio, cessano i canti di gioia, viene a mancare il vino e la terra diventa una distesa desolata e senza frutti, la ricostruzione è segnata da una prosperità e fertilità mai viste prima.
I Profeti si fanno messaggeri di questa alleanza speciale che Dio propone al suo popolo, denunciano la rottura del patto a causa dell’allontanamento da Dio, annunciano la possibilità di rinnovare questa alleanza non più sotto il segno della pietra, ma nel cuore stesso dell’uomo. Il tempo ideale che essi annunciano, non è forse destinato a compiersi e realizzarsi nell’immediato, ma rimanda ai tempi della venuta del Messia, colui che ristabilirà ogni cosa e la cui venuta sarà sotto il segno di monti e colli che stilleranno ogni bene, ma anche pace e prosperità. C’è quindi la volontà divina di non chiudere totalmente la porta al cuore dell’uomo, ma di ricostituire quel rapporto speciale anche su basi nuove, per le quali servirà innanzitutto la conversione del cuore e l’adesione fedele –e non solo formale –alla Legge. Nel NT, la Nuova Alleanza viene instaurata sotto il segno del Cristo, nella sua Incarnazione, Passione e Risurrezione, che apre una novità assoluta che punta a fare “nuove tutte le cose”.
Dall’AT si“ritorna a Cana” per rileggervi direttamente ilegami con esso e, di conseguenza, aprirsi anche ai contenuti del Nuovo. Sono quattro gli aspetti sotto i quali si passain rassegna l’instaurazione della Nuova Alleanza, tutti accomunati dal motivo della “ora”. Il primo ha come punto di riferimento il tema della “festa” e fa leva su tre tempi e modi sotto i cui segni viene affermata l’Alleanza: il “terzo giorno” che mette in rapporto Cana con l’antica teofania del Sinai e la nuova teofania pasquale; il motivo delle “nozze”, sotto il cui segno si rinsalda il rapporto tra Dio e il nuovo popolo costituito dal Cristo; il motivo degli “invitati”, rappresentato dai personaggi che sono presenti alle nozze di Cana. Secondo aspetto sarà quello del “dialogo”, che della Nuova Alleanza tende a fissare i confini ed il contorno, sotto il segno del breve colloquio tra Gesù e sua madre. Parliamo di “confini” perché i vv. 3-5 possono essere riletti alla luce dei titoli con i quali viene definita Maria: “donna” e “madre”, che entrambi sottolineano il nuovo ruolo di Maria come madre e donna di questa Alleanza, resa effettiva una volta per tutte sulla croce. A questo si aggiungano anche il tema della “ora”, anch’essa tendente alla Passione, ma non solo, e al “testamento” di Maria, le cui ultime parole profumano sia dell’AT, ma sono giàvolte verso la missione del Figlio, di cui è la prima discepola.
Dal dialogo passiamo al “segno”: nelle figure dei servitori e delle idrie, dello sposo e del vino nuovo, Cana ci invita ad entrare dentro il mistero di questa Alleanza, perché la conversionedell’acqua in vino è immagine di una conversione ben più profonda: è tutta la Legge antica che tende al suo compimento, nella fiducia incondizionata dei servitori alle parole di Gesù, nelle sei idrie che passano dal contenere un’acqua utile solo alla purificazione al donare il vino del Vangelo, della Parola del Messia-Sposo presente fra gli uomini, che chiama alle nozze escatologiche l’umanità intera. Arriviamo così al momento decisivo della “gloria”: l’inizio di questo nuovo cammino è scandito sotto il motivo: del “principio dei segni”, che ha il doppio fine di essere sia programmatico che archetipo per il cammino futuro; della fede che, sull’esempio dei discepoli, guida le azioni di chi intende porsi alla sequela del Cristo; del cammino che spinge a fare dono a tutti gli uomini del “vino nuovo” del Vangelo.
Nelle nozze di Cana si scoprirà così come la Parola di Dio, che è anche parola dell’uomo, è il segno vivo della presenza di Dio che parla al cuore dell’uomo e lo stimola a lasciarsi interrogare da questa parola, per tendere all’incontro pieno con il Cristo, che chiama al banchetto nuziale ogni uomo disposto a seguirlo e a farsi incontrare da Lui.
Estratto dalla tesi di Baccellierato di Angelo Oliveri
Il descensus ad inferos
Se finora ci siamo soffermati sul momento della croce, adesso è il momento di spendere qualche parola sull’insondabile mistero del Sabato santo, caratterizzato dall’evento - tanto caro alla Tradizione - della “discesa agli inferi”. Essa, infatti, è prolungamento indispensabile dell’opera salvifica di Cristo, conseguenza estrema dell’esperienza della croce. In un certo senso, risponde anche ad un’esigenza di “perfezione” legata alla morte di Cristo, la quale, per essere appunto “perfetta”, non può che passare anche dall’oscura realtà degli inferi. Questo concetto viene spiegato esaustivamente da N. Cusano, citato appunto da Balthasar:
«la visione (visio) della morte per esperienza immediata (via cognoscentiae) costituisce la pena più perfetta. Ora, poiché la morte di Cristo fu perfetta, (…) l’anima di Cristo discese all’inferno (ad inferna) dove si ha la visione della morte. La morte, infatti, si chiama inferno (infernus) e proviene dall’inferno più profondo (ex inferno inferiori). L’inferno inferiore o più profondo è il luogo dove si ha la visione della morte. Quando Dio risuscitò il Cristo lo strappò, come leggiamo negli Atti degli Apostoli, all’inferno più profondo (…). La sofferenza di Cristo, quella di cui è impossibile pensarne una maggiore, era come quella dei dannati che non possono essere dannati ancora di più, arrivò cioè alla pena dell’inferno (usque ad poenam infernalem) … Egli è il solo che attraverso una morte siffatta penetrò nella gloria». (1)
Se da una parte è chiaro che l’esperienza degli inferi fosse necessaria perché Cristo potesse essere pienamente “solidale” con coloro che sono morti – e anche perché la sua stessa morte fosse “perfetta” - non è ancora del tutto chiaro il motivo per cui la sua morte debba essere “maggiore” di quella di tutti gli altri uomini. Non sarebbe già sufficiente, in altre parole, che un Dio che sperimenti la morte come gli altri uomini, senza necessariamente patirla maggiormente? Questo discorso, però, non si conviene a Cristo, il quale «risparmiando ai morti, nella propria solidarietà con essi, tutta l’esperienza della morte (come poena damni) – cosicché un raggio celeste di fede, carità e speranza ha sempre rischiarato l’abisso – prese su di sé tutta questa esperienza, sostituendosi ad essi». Perciò la sua morte è stata di gran lunga più sofferta di qualsiasi altra, perché soltanto lui ne ha sperimentato il tremendo “pungiglione”, divenendo con questo «l’unico che, andando al di là della comune esperienza della morte, ha misurato la profondità dell’abisso». (3)
Definito questo aspetto, ci poniamo un’altra domanda: cosa è accaduto realmente negli inferi? In cosa il Sabato santo differisce dal Venerdì della Passione? Cusano, come abbiamo visto, fornisce un’espressione emblematica in questo senso: parla infatti di «visio mortis». Occorre però approfondire questo concetto:
«l’oggetto di questa visio mortis non poteva essere costituito né da un inferno abitato – osserva Balthasar – perché allora sarebbe la contemplazione non di una vittoria, ma di una sconfitta; né da un purgatorio abitato, perché questo teologicamente non può esistere “prima” di Cristo, come diremo; né da un “limbo” abitato che, nella visione biblica, viene ad essere proprio svuotato dalla “discesa” di Cristo; esso può essere costituito unicamente dalla pura “sostanzialità” dell’inferno come “peccato in sé” (…). Secondo questa interpretazione l’inferno è un prodotto della redenzione, che ha bisogno solo ormai di essere “contemplato” ne suo in-sé dal Redentore per diventare, nella sua perdizione assoluta, un “per-lui”, ciò su cui egli riceve, nella risurrezione, il potere e le chiavi». (4)
Quello citato è sicuramente uno dei passi più significativi dell’opera di Balthasar, almeno in quel che riguarda la sua concezione dell’inferno. Con la discesa agli inferi, Cristo è posto dinanzi al “nulla” che li abita, all’oggettivazione del non-senso, dell’inimicizia, quando con essa non si intende «il peccato dell’uomo individuale, (…) ma il peccato astratto da questa individuazione, contemplato nella sua nuda realtà» (5). Ancor di più, Cristo è proprio travolto da questo non-senso fino a divenirlo egli stesso. Perciò, osserva Balthasar, egli contempla la sua «seconda morte», nel senso che egli stesso, sprofondato nell’abisso e abbandonato dal Padre, è l’oggetto della sua tormentosa contemplazione. Qui Cristo è dunque costretto ad un’esperienza passiva, che differisce profondamente dalla donazione attiva di sé compiuta sulla croce (ragion per cui, per rispondere alla nostra domanda, l’esperienza “passiva” del Sabato santo differisce da quella attiva della Passione).
Se da una parte, però, abbiamo cercato di capire cosa sia accaduto a Cristo con la discesa agli inferi, dall’altra non abbiamo ancora chiarito cosa invece sia accaduto all’inferno (in quanto tale). Balthasar, nel passo pocanzi citato, lo spiega con straordinaria efficacia: «l’inferno è un prodotto della redenzione, che ha bisogno solo ormai di essere “contemplato” nel suo in-sé dal Redentore per diventare, nella sua perdizione assoluta, un “per-lui”». Cristo, in altre parole, è sceso all’inferno perché esso smettesse di essere una mera esistenza, fine a se stessa, inanimata (un po’ come il fango informe di Genesi), divenendo piuttosto una “pro-esistenza”, un “esistere-per-lui” (come lo è divenuto l’uomo-nephes, all’atto della creazione). In questo senso, potremmo considerare la discesa agli inferi come momento riepilogativo o, meglio ancora, di “completamento” dell’opera creatrice, punto di incontro tra protologia ed escatologia. Se, come Ratzinger, intendiamo la creazione del mondo come «il momento in cui un ente per la prima volta (…) è stato in grado di formare l’idea di Dio», in modo tale che «il primo Tu che - per quanto balbettando - venne rivolto da bocca d’uomo a Dio, designa il momento in cui lo spirito è comparso nel mondo» (7), allora ci accorgeremmo che “creazione” altro non sia se non il passaggio dall’esistenza alla pro-esistenza, dalla solitudine cupa al dialogo con l’alterità, che prima ancora di rivelare il “tu”, plasma l’“io” che lo conosce. In questo senso, Cristo ha raggiunto l’inferno perché anche l’inferno, da qual momento in poi, potesse rivolgere il suo “tu” al Redentore, potesse avere Cristo, cioè, come interlocutore. Anche l’inferno, di conseguenza, si deve considerare raggiunto dalla redenzione, specie nella misura in cui, proprio come l’uomo di Genesi, anch’esso abbia smesso di esistere per se stesso, iniziando ad esistere per Cristo. Perciò, come dicevamo, il descensus potrebbe essere definito “completamento” dell’opera creatrice, poiché in esso Dio, mediante il Figlio, recupera a sé quella porzione di creazione che invece, con il peccato, si era autonomamente posta fuori dallo spazio salvifico di grazia.
Rimanendo nel merito degli effetti che il passaggio di Cristo ha generato sull’inferno, e quanti lo abitavano prima del suo ingresso, sarà ancora necessario considerare alcune osservazioni del Nostro autore:
«là dove nello Scheol emerge qualcosa di autenticamente vivo del cielo, questo non è già più lo Scheol. Fede, speranza e amore derivano da Dio e non possono essere nel luogo della dannazione, tanto più in seguito alla discesa di Cristo, il portatore e dispensatore di questi doni celesti, che con la sua discesa toglie la disperazione dello Scheol. Da quando nell’“inferno” c’è speranza, la luce di Cristo vi è penetrata. Se dunque la vittoria sullo Scheol è un evento straordinario, che si irradia dall’unica croce del Redentore, l’effetto di questo evento è unico nel suo genere ed agisce (parlando nel tempo del mondo) in modo retroattivo e in avanti». (8)
In sostanza, quello che Balthasar tiene a sottolineare è il fatto che la discesa di Cristo agli inferi non possa in alcun modo lasciare questo luogo indifferente, come invece avrebbero voluto gli scolastici – che, come sappiamo, limitano gli effetti della redenzione al solo «pre-inferno». Poiché, se anche solo una parte dell’inferno permanesse, al modo dantesco, nella sua inscalfibile immutabilità, allora ciò equivarrebbe a svuotare di senso la stessa redenzione di Cristo. Scrive infatti:
«lo svuotamento dell’Hàdes, in cui era caduta l’umanità, la cancellazione di questa realtà eterna, è il fatto assolutamente elementare che rende veramente il cristianesimo la religione della redenzione. Uno ha attraversato il mondo della perdizione e sotto i passi compiuti da colui che era il più perso e il più abbandonato, questo carcere è crollato. L’essere-cristiano esiste innanzitutto per questo evento; in questa discesa il cristiano è battezzato, come sanno bene i Padri della Chiesa». (9)
Certo, sorge spontanea una domanda: quando Balthasar parla addirittura di «cancellazione di questa realtà eterna», lo fa intendendo che davvero l’inferno, in senso lato, non esista più – sconfinando, dunque, nell’aporia dell’origenismo? A questa domanda cercheremo di rispondere più avanti, quando confronteremo la teoria dell’apocatastasi con le conclusioni del teologo di Lucerna. Per il momento, ci basti ascoltare quanto da lui aggiunto - in appendice a questo discorso – circa il Cristo di Mt 25: «egli soltanto decide del loro cielo e del loro inferno, soprattutto perché nella sua discesa e ascesa non soltanto li ha conosciuti come sue estreme possibilità, ma li ha vissuti fino in fondo, così che chi è mandato in paradiso o all’inferno rimane all’interno dell’ambito del regno di Cristo, dinanzi al quale devono piegarsi le ginocchia sia di quanti sono “sotto terra” che di coloro che sono in cielo e sulla terra». Ciò che è dunque essenziale riconoscere è l’estensione del dominio cristologico fino al mondo oscuro degli inferi. Se questo significhi addirittura ammettere che non esista più l’inferno, né la reale possibilità di decidersi per esso, lo vedremo in seguito.
Un ultimo aspetto che intendiamo considerare, a conclusione di questo paragrafo, riguarda ancora la condizione di Cristo nell’evento del Descensus. La sua impareggiabile sofferenza, infatti, non fu soltanto dovuta all’abbandono del Padre, che lo respinse come “peccato”, ma anche all’abbandono dell’uomo, che lo allontanò perché “incompressibile”. Vediamo di spiegarci meglio. Balthasar affronta questo tema ne Il tutto nel frammento, quando parla della “passione della Parola”. In questo contesto, riferendosi appunto al tema della passione, egli afferma che di essa sia impossibile definire una “logica”, ammettere, cioè, la possibilità di una comprensione umana. Questo, però, sembrerebbe entrare in contraddizione con quanto affermato in precedenza, che cioè l’evento del Golgota sia evento rivelativo. Come può infatti un evento che si dice “rivelativo” sfuggire, al tempo stesso, alla comprensione umana? Occorre dunque una precisazione: la croce, si dovrebbe dire, assume certo dei connotati rivelativo-epifanici, ma solo se vista con gli occhi della fede, che in essa vi scorge il dramma d’amore tra il Padre e il Figlio. Al di fuori di questa prospettiva, la passione rimane un fatto assolutamente incomprensibile. Scrive infatti Balthasar: «quel Logos, in cui tutto nel cielo e sulla terra è raccolto e possiede la sua verità, cade egli stesso nel buio, nella angoscia, nella paralisi d’ogni sentimento e d’ogni conoscenza, nella via senza scampo, nell’abisso, nell’assenza di ogni rapporto col Padre, (…) in un nascondimento, che è proprio l’opposto dello svelamento della verità dell’essere». (11) Perciò, nel mistero della croce, il Verbo fatto carne, che aveva assunto finanche le categorie logico-espressive dell’uomo perché potesse parlarne il linguaggio, viene irrimediabilmente sottratto all’umano, e dunque alla sua comprensione. Quello che infatti la Parola deve dire adesso, dalla croce, non c’è più linguaggio che sappia esprimerlo, né logica che possa sistematizzarlo: «si tratta letteralmente dell’“indicibile”, che arriva da un punto infinitamente più lontano di tutto ciò che entra nella situazione dialogica finita» (12). Il silenzio che, dal Golgota, si estende all’intera esperienza del Sabato santo, non è pertanto semplice vuoto o assenza di parole, ma “trascendimento” del discorso, linguaggio altro, del tutto incomprensibile perciò.
Balthasar descrive questa situazione di estrema solitudine del Figlio con toni che si avvicinano alla poesia:
«la parola di Dio nel mondo è diventata muta, nella notta essa non chiede più di Dio; essa giace sepolta nella terra. La notte che la copre non è una notte di stelle, ma notte di desolazione profonda e di alienazione mortale. Non è un silenzio pieno di mille segreti d’amore, che scaturiscono dalla avvertita presenza dell’amato; ma silenzio di assenza, di distacco, di vuoto abbandono, che arriva dietro tutti gli strappi dell’addio; la stanchezza è tale che non può più sopportare lo sforzo del dolore. E cosi rimane solo l’ottusità sorda di un parlare e pensare Dio puramente umano, puro strepito di logica formale, di vuoti sillogismi (…). Questo scheletro logico-matematico è espressione de fatto che il Logos diventato carne è morto e sepolto, e che la logica che dice il vero rimane sospesa per questi tre giorni». (13)
1 Niccolò Cusano, Excitationes, cit. da H. U. von Balthasar, Teologia dei tre giorni. Mysterium Paschale, Brescia 19902 (tit. orig. Theologie der drei Tage, Zürich 1969), 152.
2 H. U. von Balthasar, Teologia dei tre giorni, cit., 150.
3 L.c.
4 Ibid., 154-155.
5 Ibid., 154.
6 L.c.
7 J. Ratzinger, Intervento al simposio su Evoluzionismo e cristianesimo ospitato dalla Congregazione per la Dottrina della Fede, cit. da F. Brancato, Creazione ed evoluzione. La grammatica di un dialogo possibile, Troina 2009 (Incroci diretta da P. A. Ruggiero 1), 193.
8 H. U. von Balthasar, Escatologia nel nostro tempo. Le cose ultime dell’uomo e il cristianesimo, Brescia 2017 (tit. orig. Eschatologie in unserer Zeit. Die letzten Dinge des Menschen und das Christentum, Freiburg 20102), 53.
9 Ibid., 54.
10 Ibid., 55.
11 Id., Il tutto nel frammento. Aspetti di teologia della storia, Milano 20173 (Opere di H. U. von Balthasar vol. XXVII; tit. orig. Das Ganze im Fragment. Aspekte der Geschichtstheologie, Einsiedeln 1963), 247.
12 Ibid., 248.
13 Ibid., 251.
Il Sinodo dei Vescovi nel 2015, nella ricerca di soluzioni pastorali per i divorziati risposati, nota come bisogna distinguere tra la verità oggettiva del bene morale e la responsabilità soggettiva delle singole persone e ricorda che, a motivo della “legge della gradualità”, è doverosa l’educazione della coscienza e del senso della responsabilità mediante la proposta della via penitenziale personalizzata: la pastorale personalizzata comporta sempre l’applicazione prudente e saggia dei principi generali alla complessità delle situazioni delle singole persone.
Il dibattito sinodale si attesta sul “discernimento”, sull’“ascolto reverenziale”, sull’“integrazione”, come pure sulla coscienza da rispettare e da formare: la “via caritatis” affidata al prudente discernimento pastorale; elementi che riguardano e impegnano in modo prioritario il confessore.
Amoris laetitia (=AL) si presenta, come un forte appello a tutto il ministero presbiterale, prospettano notevoli ripercussioni sulla celebrazione del Sacramento della riconciliazione.
CENTRALITà DELLA PERSONA E DELLA COSCIENZA
Rispettare l’ontologia della persona è stato sempre un dovere per tutta l’attività pastorale della Chiesa. La persona umana ha degli elementi comuni a tutte le persone e degli elementi singolari che costituiscono la sua singolarità e concretezza: ogni persona, a motivo degli elementi comuni è uguale a ogni altra persona, ma a motivo degli elementi singolari è diversa da ogni altra persona, comunque, sia gli elementi singolari sia gli elementi specifici fanno parte della ontologia della persona.
Amoris Laetitia insiste nell’evidenziare che nella persona bisogna considerare anche gli elementi singolari, particolarmente, quelli che limitano la persona nella sua capacità di agire normalmente. Ogni persona, anche se si trova nel peccato, è un valore in sé e, quindi, importante e amabile; non è ammissibile alcuna emarginazione per nessuna persona.
Davanti ad una situazione di peccato deve prevalere la purezza della dottrina o l’amore e l’accoglienza del peccatore? Papa Francesco è chiaro: <<Credo che Gesù vuole una Chiesa attenta al bene che lo spirito sparge in mezzo alla fragilità>>. AL dà l’indicazione pastorale del bene possibile: << tuttavia, dalla nostra consapevolezza del peso delle circostanze attenuanti, ne segue che “senza sminuire il valore dell’ideale evangelico, bisogna accompagnare con misericordia e pazienza le possibili tappe di crescita delle persone che si vanno costruendo giorno per giorno”, lasciando spazio alla “misericordia del Signore che ci stimola a fare il bene possibile” (n.308).
Nessun peccatore, pertanto, può essere abbandonato a se stesso.
AL n. 298 parla di <<discernimento personale e pastorale>> unitariamente e mette i due aspetti in stretta connessione: mentre quello pastorale è esercitato dal soggetto dell’azione pastorale - principalmente il confessore - e mira a cogliere la peculiarità e le differenze delle varie situazioni prendendo in considerazione l’insieme delle circostante oggettive e soggettive; quello personale è esercitato dal soggetto morale, cioè dal fedele, che cerca di essere attento a come il Signore si manifesta nella situazione che vive.
Papa Francesco insiste nel dire che la coscienza delle persone dev’essere meglio coinvolta nella prassi della Chiesa.
Il confessore deve assumere la sfida di rivolgersi alla soggettività adulta dei cristiani rinunciando ad ogni atteggiamento di esclusivo controllo; deve attivare un’opera di formazione della coscienza al fine di abilitare i cristiani alla ricerca della volontà di Dio nelle diverse situazioni esistenziali alla luce del Vangelo.
Per fare questo bisogna coltivare un credito di fiducia nei confronti delle persone e avere il coraggio di un’impresa educativa a lungo termine, impegnata ad avviare processi che si sviluppano nel tempo attraverso logiche di gradualità e di progressiva responsabilizzazione.
Fa parte dello stile misericordioso del confessore il compito di accompagnare pazientemente la coscienza di ognuno nel graduale cammino verso il vero bene.
I Sinodi e con essi Papa Francesco ricollocano la coscienza al centro, ritrovando un nuovo equilibrio tra ordine normativo oggettivo e moralità concretamente vissuta: per AL è propria della coscienza una funzione ermeneutica. Nella coscienza l’uomo riconosce se stesso e costruisce il ponte tra la rappresentazione dell’ideale in cui crede e le esigenze contenute nel vangelo da u n latte, dall’altro, la sua situazione vissuta, con la sua vulnerabilità e i suoi limiti.
Inoltre, il confessore deve avere la piena consapevolezza che al centro c’è il soggetto. La persona umana con la sua responsabilità, una responsabilità da esercitare e mettere in atto in base alle possibilità che a ciascuno vengono date: <<la Chiesa nella persona del confessore entra in dialogo con la coscienza del penitente>>.
Salvatore Consoli, Il contributo di Amoris Laetitia, per la riscoperta e la qualificazione del ministero della riconciliazione, in Sinaxis XXXV/2 2017
Estratto dalla tesi di Baccellierato di Samuel Grienti
Conosciuta dalle citazioni dei Padri occidentali col titolo latino di pericope adulterae, è ritenuta un testo canonico nella sua integrità e come una delle sezioni più preminenti del Vangelo secondo Giovanni, per l’autorevolezza che ha avuto nella spiritualità cristiana ed ecclesiastica. Ciononostante, questi versetti risultano fra i più suscettibili di interpretazioni e studi come pochi altri in tutto il NT. Una vera e propria desperatio, insomma, a incominciare dall’ambito paleografico e filologico, dal momento che l’intero complesso testuale è manifestamente di scuola lucana. Per quanto riguarda l’ermeneutica esegetica, a parlare della sua natura “oscura” è la stessa storia delle svariate interpretazioni che, nel tempo, si sono sommate, a volte non rendendo giustizia nel palesare questo o quell’interesse interpretativo a scapito dei livelli di lettura originari che proponeva la stessa pericope.
Il titolo di per sé, plasmato sulla figura di una donna dalla dubbia moralità in ambito sessuale, sembra portare in sé un proposito di sfida al lettore. Un tale “restringimento” di campo, ovvero uno zoom diretto che dal titolo va direttamente al cuore della storia, sembra un’esplicita presa di posizione nel voler rimodellare l’intero testo alla personale attenzione di chi legge (1).
Considerando il percorso filologico e ricostruttivo del testo, prima di sostenere una posizione, è opportuno fondarne le basi per un ragionamento che comprenda anche le voci esegetiche. Dal momento che esegesi significa anche, e soprattutto, studiare il vocabolario di un testo, il discorso su Gv 7,53-8,11 può essere presentato come sotto:
«Sebbene gli studiosi di solito utilizzino prove esterne per argomentare contro l’inclusione di Gv 7,53-8,11, può capitare che vengano presentate anche delle argomentazioni di prove interne, per lo più basate sull’inclusione di vocabolario non giovanneo, per supportare queste obiezioni. Tuttavia, contra-riamente alle prove testuali, le argomentazioni sul vocabolario non giovanneo raramente ricevono la necessaria quantità di valutazione.» (2) (tdr.)
Un’analisi esegetica della pericope giovannea, per ciò che tocca il lato prettamente linguistico, come si vede, sembra mostrare incertezze sull’affidarsi o meno a una previa indagine terminologica e lessicale del testo in esame, causa la successiva mancanza di credito che tale indagine riceverebbe da quegli stessi studiosi che l’hanno portata avanti. Il v. 7,53, che narrativamente appartiene al cap. precedente, viene considerato come incipit della pericope proprio a motivo di un lessico palesemente lucano. Infatti, il toponimo ὄρος ηῶν ̓Eλαιῶν, il “monte degli Ulivi”, riporta soltanto ὄρος come termine utilizzato altrove in Gv (seppur una manciata di volte, in 4,20-21 e 6,3.15), mentre la restante specificazione risulta sconosciuta a quest’autore (3). Eppure:
«[...] l’apparizione di questo nome nel Vangelo di Giovanni può essere intenzionale (o, per meglio dire, intenzionalmente unica). Sembra comparire, dunque, soltanto durante la Festa dei Tabernacoli per riferirsi al luogo dove Gesù ha passato la notte, tra due narrazioni differenti (4) (Gv 7,37-38 e 8,12), il che potrebbe essere un suggerimento per dei significati escatologici in merito all’attesa messianica.» (tdr.)
Lemma importante per le tante accezioni che porta, παρεγένεηο (dalla forma παραγίνομαι) vale qui, al. v 8,2, come “venire, arrivare, presentarsi”. Risulta molto usato in Lc, così come nella greca LXX. Così facendo, si potrebbe determinare che probabilmente ci sia stato un prestito linguistico dalla LXX a Lc, e proporlo come evidenza sull’origine lucana della pericope adulterae (5).
Dello stesso v. si potrebbe unire al discorso anche il verbo καθίδω, “sedersi”, estremamente insolito al Gesù giovanneo, che preferisce muoversi o, quantomeno, stare all’impiedi nei momenti in cui viene descritto, specie quelli in cui educa a credere alla propria origine divina.
Tra i riferimenti temporali, il solo Ὄρθρου “all’alba” è presente nella pericope, ma è l’unico ad essere adoperato da Lc (nella veste verbale di ὀρθρίδω, in 24,1; 21,38 e At 5,21) come anche λᾱός “popolo” (che Gv sostituisce nel suo stile col più generico ὄχλος “folla”) (6).
Al v. 8,3, l’insieme dei soggetti dell’unità testuale più estesa, οἱ γραμμαηεῖς καὶ οἱ Φαριζαῖοι, risuona come estranea alla cerchia usuale dei personaggi del quarto vangelo. Sebbene Gv nomini esplicitamente i “farisei” e anche più volte, l’accostamento con l’altra classe cultuale, οἱ γραμμαηεῖς, sembra più una resa sinottica che giovannea. Fra gli evangelisti, quello che li nomina insieme e più di ogni altro è ancora una volta Lc (5,21.30-6,7-11,53-15,2). A Gv non interessa con- centrarsi sugli antagonisti, tant’è che il suo vangelo è conosciuto proprio per opporre Gesù alla generalità dei “Giudei” (Ἰουδαῖοι) (7), cioè qualunque autorità si opponga al piano di Dio ostacolando la missione del Figlio. O, semplificando ulteriormente, i Giudei restano il simbolo del mondo/carne, la parte della creazio-ne che si oppone a Gesù, simbolo di luce e vita.
Il lemma ἀναμάρηεηος, al v. 8,7, è un hapax nell’intero NT, ma ricorre frequentemente nella LXX in quei testi/codici legali aggruppati attorno alla normativa cultuale, rituale e penale del popolo d’Israele. Viene riportato anche da alcuni apocrifi veterotestamentari. Si potrebbe avanzare la spiegazione che:
«[...] forse l’insolita situazione ha previsto un motivo per cui l’autore usa un termine altrettanto insolito. Questo lemma potrebbe essere il lemma non giovanneo più problematico di tutta la pericope. Tuttavia, poiché è hapax legomenon nel NT, la presenza in questo punto di questa parola non gli procura grandi sostenitori a favore o contro la paternità giovannea.» (8)(tdr.)
Πρεζβύηεροι, (Gv 8,9), non compare nel quarto vangelo se non qui, mentre lo si ritrova nelle ultime due Lettere giovannee (2Gv 1,1 e 3Gv 1,1), come pure in Ap. Ma tale parola è estranea allo stile del quarto vangelo, al contrario di quanto si scopre per i Sinottici, specie per Lc e At (9).
Interessante è anche il ventaglio di verbi derivati dall’unione col prefisso/preposizione semplice καηά- (καηαλαμβάνω, καηεγορέω, καηαγράθω, καηακύπηω, καηαλείπω), dei rafforzativi che dànno l’idea di un “piegamento” verso qualcuno o qualcosa, un rivolgere profondamente l’attenzione. Fra questi, merita una riflessione maggiore καηακρίνω “giudicare, condannare”, ma anche “pronunciare un verdetto, emanare una sentenza”, verbo-modello su cui con buona ammissibilità si è fissata la scelta di tutti gli altri composti di καηά-. Dunque tale verbo resta anche il più forte, in termini di concretizzazione pratica: in effetti, non indica solo il “condannare”, ma una condanna cui deve farsi seguire una sentenza, materiale e reale, che serva da esempio.
Pleonastico risulta il finale interpolato da alcuni copisti, i quali, ingannati nella comprensione d’insieme del testo, inserirono le parole “Va’ in pace” (su un modello di Lc 7,50), come se il solo “va’” di Gesù non bastasse a restituire la piena dignità e libertà alla donna. Tornando allo sviluppo del climax tra Gesù e gli anziani, custodi della Legge, è bene ricordare che:
«[...] La condanna dell’adulterio nel decalogo e nel codice di santità è accompagnata nei testi legislativi dalla sanzione più grave: la pena di morte (Es 20,14; Dt 5,18.22,22; Lv 18,20.20,10). Ma non si specifica il tipo di morte. Solo nei testi allegorici di Ezechiele si precisa che la donna adultera viene lapidata (Ez 16,40.23,47). Nello stesso senso e in un contesto analogo si esprime l’apocrifo del Libro dei Giubilei del secondo secolo a.C. (Jub 30,7-10).» (10) (tdr.)
Dunque, qui si apre una prospettiva finora non formulata. Intanto, è chiaro ormai come il redattore lucano di Gv sia interessato a presentare un testo che, nel nome del tema più caro a Lc, la misericordia di Dio, ritragga o meno l’applicazione di una pena capitale, facendo trionfare nel finale il “giudizio” di Gesù. Seppur il peccato in questione possa essere verosimile, non si capisce tuttavia come mai un autore/redattore, di probabile origine greco-giudaica, non si sia attenuto a descrivere fedelmente quello che le sue leggi nazionali prescrivevano in casi del genere. Ai fini della veridicità storica della pericope e della sua trasmissione, nonché appartenenza a Lc, tale dato non può essere trascurato. Perché mettere in bocca ai personaggi degli anziani, simbolo dell’autorità, il pretesto della lapidazione, che come si è visto non è neppure specificata nella Legge citata da Dt e Lv, se non nei Profeti (per altro, questi ultimi, testi puramente allegorico-descrittivi e non prescrittivi)? Per il solo intento di far emergere Gesù e la sua conoscenza divina, ma pur sempre reale e giusta, della Legge, che rimane in ogni caso un ausilio all’uomo, e non condizione assoluta, effettiva e unidire- zionale per trovarsi nelle grazie divine. Il quadro che si descrive qui è uno di quelli in cui il lato peggiore dell’umanità vuole sovrastare anche il giudizio divino, eleggendosi a unico giudice, anche al costo di falsificare manifestamente la verità delle leggi che gli stessi uomini si sono dati. Probabilmente, il discorso sul riconoscimento della divinità di Gesù quale Figlio di Dio, nella mente del redattore lucano che ha inserito la pericope in un vangelo talmente sui generis come Gv, è passato anche da qui. Quale inserto letterario migliore se non uno in cui si manifesta la divinità di Gesù, nella cornice della sua onniscienza e magnanimità? In questo senso, forse, si è cercato di avallare la figura di Gesù all’interno del quarto vangelo come uno dei tanti momenti di pedagogia divina in cui Egli, come nel resto di Gv e con modalità pressoché similari, si presenta come l’unica Legge, l’unica verità e via, cui devono tendere tutti gli uomini.
Altro dato che potrebbe confermare una fusione, almeno tematica, con Gv, è proprio l’inserimento dell’autorità religiosa che vorrebbe concretizzare il proprio potere esecutivo. I “Giudei” di Gv sono coloro a causa dei quali Gesù, alla fine di ogni vangelo, andrà comunque incontro al momento della Passione, il momento decisivo in cui egli manifesterà la sua gloria, passaggio che non può realizzare senza prima passare dall’ultimo confronto con le autorità politiche e religiose. La gloria della Passione e della morte in croce per mano dell’autorità umana rimangono, per Gv, il momento più alto della narrazione evangelica.
In termini testuali, risulta ovvio come il redattore lucano, conoscendo già il quarto vangelo, si sia trovato in difficoltà col linguaggio e lo stile giovannei, così spogli eppure così enigmatici da comprendere sin dai primi secoli. Siffatta situazione lo ha indirizzato a mantenere il suo stile, palesemente lucano, per tutta la pericope, senza neanche chiedersi se adattarsi al resto del vangelo o meno. A questo punto del lavoro occorre, infine, articolare le ipotesi più importanti che contribuiscono a chiarire le motivazioni redazionali sulla collocazione della pericope in Gv e quelle che la vogliono proprio in quel punto particolare del testo evangelico. Con Renato Fabris e il suo Commentario (11) sul quarto vangelo, possiamo porre la questione su almeno un paio di punti essenziali, ciascuno dei quali concernenti una singola speculazione.
Una prima congettura farebbe capo a un’analisi testuale più approfondita, la cui plausibilità sui lemmi dichiarati giovannei o meno vorrebbe che buona parte di essi sia effettivamente imparentata col greco del resto di Gv (come il plurale presente ἄγουζιν, che, oltre in Gv 8,3, è nei capp. 9,13 e 18,28 dello stesso vangelo).
Un’altra ipotesi vede un’affinità contestuale e narrativa con le intenzioni più propriamente logistiche, quasi “a incastro”, del redattore lucano. Il fatto che la pericope interrompa bruscamente, almeno a uno primo sguardo, la narrazione in corso al v. 7,52, è confutato da alcuni elementi convincenti che, reperibili nei codici minuscoli e maiuscoli dove la pericope è riportata, rendono tale collocazione giustificata. Il contesto generale è quello che vede Gesù trovarsi ‒ sia prima che dopo l’intermezzo della pericope ‒ dagli spazi del tempio gerosolimitano al centro di una “sfida” con le autorità giudaiche su una tematica forense di carattere giudiziale.
1 Cfr. G. R. O’DAY, John 7:53-8:11: A Study in Misreading, in Journal of Biblical Literature 111 (1992) 4, 631.
2 J. D. PUNCH, An analysis of ‘non-Johannine’ vocabulary in John 7:53–8:11, Part 1, in In die Skriflig/In Luce Verbi 47(1), 1.
3 J. D. PUNCH, An analysis of ‘non-Johannine’ vocabulary in John 7:53–8:11, Part 1, cit., 2.
4 Ma comunque consecutive nel dispiego della narrazione evangelica (ndr.).
5 Cfr. l.c.
6 M.É. BOISMARD-A. LAMOUILLE, Synopse des quatre évangiles. III. L’évangile de Jean, cit. da R. FABRIS, Giovanni, 19912, 376.
7 J. D. PUNCH, An analysis of ‘non-Johannine’ vocabulary in John 7:53–8:11, Part 1, cit., 5.
8 J. D. PUNCH, An analysis of ‘non-Johannine’ vocabulary in John 7:53–8:11, Part 2, 3.
9 Cfr. l.c.
10 R. FABRIS, Giovanni, 19912, cit., 377.
11 Cfr. R. FABRIS, Giovanni, 19912, cit., 371-373.
La libertà di scelta nell’era di internet
Durante il prossimo Corso di Teologia intitolato “Testimoniate il vangelo in rete con la vita: costruiamo la pace”, analizzeremo le opportunità offerte dal mondo digitale mettendo in luce idee concrete su come utilizzare al meglio le potenzialità di internet in ambito pastorale.
Per introdurre le tematiche che affronteremo insieme durante le lezioni, vi proponiamo un estratto dal testo di Giuseppe O. Longo, La libertà di scelta nell’era di Internet, presente in L’algoritmo pensante. Dalla libertà dell’uomo all’autonomia delle intelligenze artificiali a cura di Christian Barone, Quaderni Synaxis, edizioni Il Pozzo di Giacobbe.
Le iscrizioni sono aperte fino all’8/11/11 alla pagina: https://bit.ly/3Ue9R5C
L’uomo e la tecnologia: IA e megadati
Nel 1956 J. McCarthy organizzò un convegno che segnò la nascita ufficiale dell’intelligenza artificiale (IA). Il dibattito partì da un assunto: << Lo studio procederà sulla base della congettura per cui, in linea di principio, ogni aspetto dell’apprendimento o un qualsiasi altro aspetto dell’intelligenza possano essere descritti in modo tanto preciso da consentirne la corruzione di una macchina che le simuli>>.
Effettivamente, nonostante gli innumerevoli studi psicologici, biologici e neuroscientifici, l’intelligenza rimase un concetto vago per cui i ricercatori di IA preferirono utilizzare il concetto di razionalità, intesa come abilità nello scegliere la condotta migliore per giungere ad una scopo ben definito e assegnato.
Inizialmente, gli studiosi di IA volevano riuscire a riprodurre l’intelligenza umana come mero ragionamento logico, quasi matematico, riducendo il tutto all’esecuzione di algoritmi. Si trascurava, così, l’aspettò contestuale dell’intelligenza umana, ossia la presenza del corpo. In questo modo per l’IA si presentarono numerose problematiche, come l’incapacità di tradurre da una lingua ad un’altra, il riconoscimento della scrittura manuale e dei volti altrui. Tutto questo condusse ad un ridimensionamento dell’impostazione logico formale dell’IA e alla costruzione del robot, con l’intento di offrire al cervello un corpo artificiale che ne simulasse la funzione essenziale del contesto e del corpo.
I big dati e il cambiamento del modello
Intorno al 2008 in IA si iniziò ad inserire un’impostazione statistica, un modello basato dell’apprendimento meccanico (machine learning) e sull’addestramento mediante confronto tra quantità enormi di dati. Si iniziò così a parlare di big data e di algoritmi di manipolazione dei megadati, attribuendo a dispositivi artificiali compiti fino a quel momento svolti dall’uomo. Questa delega tecnologica indebolì l’attività teorica a favore di un potenziamento estremo dell’attività di addestramento e apprendimento empirico, ridimensionando enormemente le pretese dell’IA.
Contemporaneamente, si constatò che i computer fossero in realtà in grado di fare cose che l’uomo non potesse comprendere nonostante li avesse costruiti. Si ebbe quindi un totale cambiamento del paradigma iniziale per cui la statistica prese il posto delle narrazioni coerenti caratterizzanti il passato.
Effetti della rete sulla quotidianità
Internet, come sappiamo, consente un accumulo di enormi quantità di dati, oggi ritenuti preziosi tanto da essere definiti il nuovo petrolio della quarta rivoluzione industriale.
Il cambiamento dalle teorie all’indagine sui dati, trova giustificazione nella filosofia digitale, per cui il principio primo della realtà è l’informazione e l’universo è considerato un computer che elabora costantemente la propria evoluzione sulla base dei megadati raccolti.
Per gestire questa mole di dati si allestiscono algoritmi ai quali deleghiamo decisioni e responsabilità, inclusa la gestione della nostra vita poiché tra le informazioni raccolte sono presentii anche i nostri dati personali.
Si andrebbe incontro al rischio di perdere il controllo degli algoritmi che usiamo e che insieme si comportano come un organismo multicellulare in evoluzione.
Guardando al passato si potrebbe avere l’impressione di essere giunti ad un degrado che ci ha condotti dalla sapienza alla saggezza, alla conoscenza, alla informazione ai dati.
Tuttavia, analizzando in coscienza questo processo, è bene rendersi conto che spesso l’uomo, a causa della sua incapacità di adeguamento allo sviluppo tecnico, guarda il presente e il futuro indossando gli occhiali del passato. In pratica, facciamo una gran fatica a liberarci dalle abitudini mentali ereditate da un’evoluzione bio-culturale che ci incatena a visioni ereditate da generazioni precedenti.
Siamo combattuti tra il la fascinazione di un futuro di semidei immortali e la nostalgia di un passato di immersione in un sistema ricco di valori etici ed estetici. Resta il fatto che il futuro è ormai passato a grande velocità e a noi tocca il compito di prendere consapevolezza della rete e delle sue innumerevoli potenzialità.
Come tutte le grandi tecnologi anche internet ci procura degli enormi vantaggi, aiutandoci a risolvere problemi e moltiplicando le nostre opportunità. Sarebbe un errore chiudersi a queste moderne tecnologie solo per la paura di naufragare nel mare magnum della comunicazione mediata dalla tecnologia digitale.
Giuseppe O. Longo, La libertà di scelta nell’era di Internet in L’algoritmo pensante. Dalla libertà dell’uomo all’autonomia delle intelligenze artificiali a cura di Christian Barone, Quaderni Synaxis, edizioni Il pozzo di Giacobbe.